Ci sono bambini rotondi;
ci sono bambini a forma di triangolo
e ci sono… bambini a zigzag.
David Grossman
Volti e storie della pluralità
Dentro le aule scolastiche i bambini e i ragazzi incontrano il mondo e sperimentano tanti mondi. Colgono nei compagni modi diversi di essere bambini e adolescenti; intendono lingue e linguaggi differenti; intravvedono appartenenze e riferimenti culturali “altri”; vivono accanto a fragilità e a bisogni più o meno evidenti. Il paesaggio educativo e scolastico è diventato nel tempo più complesso e plurale, abitato com’è da bambini e adolescenti (e dalle loro famiglie) differenti per storia personale, forme e modi di socialità, abilità e talenti, modelli e educativi e idee di genitorialità. Sono infanzie e adolescenze al plurale, che a volte sono “rotonde”, altre volte “a forma di triangolo oppure a zigzag”, come scrive David Grossman.
La distanza tra i messaggi, i gesti e le scelte, propri dell’inculturazione e socializzazione primaria e famigliare e quelli che la scuola propone a tutti nel percorso di acculturazione e socializzazione secondaria e comune, si è fatta più profonda e richiede nuove e diffuse forme di mediazione, negoziazione e alleanze rinnovate. Così come si richiedono agli insegnanti attenzioni costanti verso gli uni e gli altri e una cura paziente, affinchè si costruiscano buone interazioni fra bambini e ragazzi, uguali e diversi.
La scuola è sempre stata attraversata dall’eterogeneità: delle storie, dei livelli di partenza, delle condizioni di vita,dei ritmi e modi dell’apprendimento. Ma oggi lo è ancora di più perché dentro l’aula si ritrovano bambini con bagagli autobiografici non consueti, lingue e appartenenze variegate, fragilità che interrogano, “disturbi” ed esigenze specifici. Essa è dunque investita sempre di più da una duplice domanda: promuovere l’apprendimento di tutti e di ciascuno ed educare a “stare al mondo”.
Il rispetto è una soglia
Ma stare in quale mondo? La realtà è connotata dalle differenze; ogni territorio e comunità sono diventati un microcosmo che propone e riproduce opportunità, interazioni molteplici, tensioni, convivenze globali. Ma anche “ogni singola persona nella sua esperienza quotidiana, deve tener conto oggi di informazioni sempre più numerose ed eterogenee e si confronta con la pluralità delle culture. Nel suo itinerario formativo ed esistenziale, lo studente si trova a interagire con culture diverse, senza tuttavia avere strumenti adatti per comprenderle e metterle in relazione con la propria”.
Così si legge nelle indicazioni nazionali per un curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (MIUR 2012), nelle quali si insiste molto sulla sfida della scuola che deve, nello stesso momento, tenere insieme e coniugare in maniera feconda l’unità e la diversità, l’eterogeneità e la proposta educativa comune.
“La scuola raccoglie una sfida universale, di apertura verso il mondo, di pratica dell’uguaglianza e il riconoscimento delle differenze”. L’educazione al rispetto potrebbe essere ben sintetizzata in questa frase, tratta anch’essa dalle indicazioni nazionali per il curricolo.
La tolleranza e il rispetto non sono fini a se stessi, ma rappresentano un mezzo e una strada: sono la soglia e la condizione affinchè possano intrecciarsi relazioni che rigettano la discriminazione, l’esclusione, la violenza. Senza tolleranza e rispetto, non è possibile convivere in pace; con un atteggiamento di apertura praticato e diffuso, si possono avverare buone possibilità di scambio e modi positivi e più profondi di interazione fra uguali e diversi.
“Banali” segnali d’intolleranza
Al contrario, l’intolleranza, deriva dalla convinzione che il proprio gruppo, sistema di credenze e modi di vita sono superiori a quelli altrui. Questo convincimento può produrre forme e atteggiamenti diversi, dall’indifferenza e la mancanza di interesse e di attenzione verso gli altri, alle forme estreme di discriminazione e persecuzione. Nella società e nella vita quotidiana si manifestano spesso forme e gesti di intolleranza spiccioli e “banali” che i bambini e i ragazzi possono fanno propri, imitare e portare a scuola.
L’intolleranza verso chi è ritenuto diverso si può esprimere in vari modi: prima di tutto, attraverso un linguaggio che offende, etichetta e chiude le persone entro i recinti di una definizione riduttiva o negativa. Può manifestarsi attraverso la negazione, la rimozione e l’insignificanza attribuita alle storie degli altri, come se avesse valore solo la propria. E ancora, si manifesta attraverso la difficoltà a tener conto e gestire la fragilità, che, solo se riconosciuta, può tramutarsi in resilienza; oppure riducendo la ricchezza e la complessità di una persona alla sola dimensione della sua vulnerabilità. L’intolleranza può inoltre produrre forme di esclusione esplicita e discriminazione palese; si manifesta allora nella persistenza e nella diffusione di stereotipi e di pregiudizi, che si fissano nel tempo e sono difficili da decostruire; nei gesti di aggressione e di bullismo a danno di chi è meno forte e tutelato, più sguarnito e solo.
Anche nelle scuole e nelle classi si possono cogliere talvolta fra i bambini e i ragazzi segnali di separazione silenziosa di fatto fra gli uni e gli altri, fra chi è ritenuto forte e popolare e chi è percepito e vissuto come vulnerabile. Questo accade in misura maggiore nei momenti e negli spazi informali e liberi della relazione tra pari, più che nelle situazioni organizzate dell’apprendimento comune, le quali sono più sorvegliate e strutturate in maniera tale da cercare di includere.
Anche nei modi di rivolgersi gli uni agli altri, nelle aule e nei cortili, s’intendono talvolta forme di etichettamento e termini che escludono e irrigidiscono le identità, oltre che offendere e ferire. I bambini e i ragazzi infatti assorbono e possono fare propri stereotipi e pregiudizi. Può succedere in certi casi che i bambini più piccoli non vogliano dare la mano, stare accanto o giocare con chi appare diverso ai loro occhi, per colore della pelle o perché più fragile e meno competente.
Quando sono più grandi, le forme di esclusione si palesano soprattutto e al momento delle scelte elettive, allorquando si formano nelle classi i gruppi e le cerchie degli amici. Oppure passano attraverso i mancati inviti a condividere attività e tempi extrascolastici e quindi anche a spartire i racconti e le narrazioni che successivamente ne scaturiscono e che creano legami. Fra gli adolescenti, l’esclusione assume forme e modi più diretti ed espliciti e si manifesta attraverso gli “scherzi”, le parole e le etichette ripetute, che diventano abitudine e producono stigma, segnando le relazioni fra pari e permeando negativamente i vissuti di autostima di chi si sente ai margini.
I bambini imparano con gli occhi e imparano dai gesti
Quando entra in classe, un bambino lo fa portando tutto quello che sente dire intorno a sè, in famiglia, alla televisione, nella città e nella comunità in cui vive: vocabolario, rappresentazioni, gesti. E continua ad assorbire dai pari e dagli adulti altri termini che denotano e connotano la diversità, immagini degli altri a volte negative, segnali volti a esprimere distacco o vicinanza.
Alcune parole, inizialmente neutre e solo descrittive, sono diventate con il tempo quasi delle pietre e vengono usate come oggetti contundenti per offendere e stabilire distanze. Termini che avevano inizialmente un significato di natura giuridica e nazionale, oppure che definivano una disabilità e una condizione più fragile, diventano così sinonimi di estraneità e mezzi per erigere confini, distinguersi e offendere. Coloro che sono percepiti come diversi sono denominati ed etichettati come un gruppo separato e la loro storia viene racchiusa dentro una definizione riduttiva che lascia poco spazio all’auto-narrazione e ai reciproci racconti. I bambini imparano con le orecchie: assorbono le parole e le rappresentazioni negative degli altri, mentre dovrebbero essere educati a maneggiare il linguaggio con cura e a prendersi sempre la responsabilità delle parole e di ciò che dicono.
Ma che cosa succede dentro le scuole e nelle classi rispetto alla gestione educativa delle diversità? A volte, in seguito a decisioni sorrette dall’autonomia scolastica, o in accordo con le posizioni di alcuni enti locali, si organizzano situazioni di separazione di fatto, forme e modi di silenziosa distanza. Lo si fa a volte per motivazioni linguistiche o in nome di ragioni “organizzative” che portano di fatto alla formazione di classi o gruppi che hanno il segno della minorità. I bambini imparano con gli occhi: si accorgono di quando il nostro sguardo verso gli altri non è guidato dal riconoscimento, ma dalla svalorizzazione e interiorizzano l’idea che le persone non sono tutte uguali e che le differenze non sono il sale della terra, ma uno stigma di cui vergognarsi.
Questa rappresentazione deficitaria degli altri viene talvolta supportata anche da gesti, decisioni, omissioni e sanzioni. Così succede che degli alunni tornino a casa per il pranzo perché la mensa scolastica viene loro preclusa per ragioni economiche; altri ancora scompaiono da un giorno all’altro perché la famiglia è stata all’improvviso “sgomberata” dalla casa in cui vivevano. I bambini imparano dai gesti che i diritti dei minori hanno importanza e valore differenti sulla base della nazionalità, del censo, del luogo di nascita, del colore della pelle, delle competenze e abilità.
In modo diretto, in modo indiretto
I bambini imparano presto, con gli occhi, con le orecchie e attraverso i gesti, qual è il clima della comunità in cui crescono, quali sono le rappresentazioni che gli altri hanno di loro: quelle che hanno un valore positivo (di conferma e valorizzazione) o quelle che, viceversa, suscitano diffidenza e distanza. I bambini interiorizzano il “pari e il dispari” che sono insiti nelle parole e nei segni. Lo fanno i bambini che possono contare su risorse maggiori e lo fanno ancor di più coloro che sono in situazione di fragilità, che sperimentano ogni giorno le forme spicciole della distanza, i modi sottili o espliciti della discriminazione.
Si può educare all’apertura e al rispetto, a scuola e fuori dalla scuola, in maniera esplicita oppure in modo indiretto. Lo si fa in maniera diretta, proponendo informazioni, saperi e notizie sugli altri e sulla loro storia; presentando messaggi, principi e valori che fanno leva su un “dover essere” positivo; diffondendo racconti volti a sollecitare comportamenti e attitudini di riconoscimento.
Lo si fa in maniera implicita e indiretta , grazie alla “pedagogia dell’esempio”, fatta di gesti, parole, atti e sguardi degli adulti – educatori, insegnanti e genitori – che diventano così testimoni e modello di identificazione. E lo si può fare anche attraverso i numerosi racconti e le molteplici storie che attivano l’empatia, il riconoscimento, la vicinanza.
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