Ho una certa idiosincrasia a scrivere sui cosiddetti “diritti dei bambini”. Il rischio della retorica buonista è sempre in agguato. Il rischio di pensare che, per esempio “giocare” sia una specie di “diritto” rischia la banalità utile ai negozi di giocattoli, e una sorta di estremismo pedagogistico fuori luogo. Qualche volta i bambini debbono anche imparare a tacere o ad avere pazienza.
Preferisco qui parlare di una serie di diritti che chiamo “naturali” in quanto vanno oltre le mode di un’epoca, superano il dibattito giusnaturalista o positivo del diritto presente, e colgono alcune questioni essenziali dell’umanità, non solo dei bambini, in relazione a costumi e stili sociali della modernità attuale che si riflettono suo bambini.
È un percorso più duro della retorica buonista, ma mi è più congeniale. Parlerò qui di 4 diritti che considero naturali, con i quali l’attuale “modernità” misura nuove sfide e nuovi dilemmi etici, sociali, pedagogici.
Il diritto a nascere
A mio modo di vedere è in natura la procreazione della specie come “senso” della nostra identità e socialità umane. Fare figli è “naturale” immanenza della nostra specie. Se non fosse così non ci sarebbe storia, ma solo attesa celibe ed escatologica della fine umana. Detto questo, rilevo come la nascita si rappresenta oggi nelle società moderne con nuovi dilemmi sui quali merita riflettere con attenzione.
Nascere, ovviamente, non è un mai stato nella storia umana diritto assoluto, si lega alla natura e alla cultura, ed è all’incrocio tra diversi diritti, oltre che a condizioni fisiche e biologiche. Ma nel presente tempo la nascita incontra la “tecnica” e cambia profondamente registro. Non tratterò qui la questione dell’aborto volontario come questione sociale e di legge. Su questo tema, delicatissimo, l’unica razionalità possibile è il suo superamento con il controllo preventivo delle nascite. Parlo, invece, qui di eventi scientifici e clinici di sviluppo delle tecnologie medicali per i quali – ad esempio – nascono sempre meno bambini con disabilità genetiche (di cui l’amniocentesi è il sistema rivelatore) e sopravvivono sempre più neonati a forte pretermine per merito della neonatologia moderna, cui spesso conseguono gravissime disabilità. Dunque il medesimo luogo (l’ospedale) diventa un mutatore importante delle effettive nascite e di eventuali nuove disabilità. Anche la fecondazione assistita, nelle sue diverse forme, spalanca nuovi dilemmi che toccano, ad esempio, i diritti di un bambino a sapere del suo passato remoto.
La relazione tra tecnologia e nascita, dunque, crea nuovi dilemmi non solo etici, ma anche sociali e culturali. Ma soprattutto sconvolge questioni delicate circa un “naturale” diritto alla nascita, oggi nettamente sulle spalle dei “diritti alla genitorialità” delle persone adulte. Si tratta di un ingarbugliato tema per il quale non ho soluzioni giuridiche né etiche definitive da proporre, ma una difficile riflessione da tenere sempre accesa su come oggi tecnologia e scienza ci disvelano scenari “altri” dei nuovi comportamenti umani. Nello scenario limite, ad esempio, la percezione di rischi di una sempre più sofisticata eugenetica sulle nascite, senza sorpresa e senza incanto del naturale.
Il diritto all’attaccamento
Da Winnicot a Bowlby, il secolo XX ha consacrato l’attaccamento come il dono “naturale” più importante per la crescita di un bambino. Prendersi cura di un neonato o di un bambino piccolo, esprimere tenerezza e attenzione crea un legame che in tutte le esperienze di vita, anche animali, ci riconduce ad un’idea etologica dell’attaccamento come partenza indispensabile per sopravvivere, crescere, diventare adulto. È dunque una specie di “dovere” dei genitori ed un diritto “naturale” di ogni bambino. Ma sappiamo che non è così sempre. Secondo i dati UNESCO circa 153 milioni di bambini non hanno i genitori e vivono in condizioni di precario attaccamento, spesso del tutto assente. Sappiamo che questo numero produce via via forme di sfruttamento, disagio, abbandono. È dunque “dovere” delle società attuali porre al centro della vita di ogni bambino il diritto all’attaccamento come esigenza non solo legata ad ogni singola persona ma anche al destino complessivo dei nostri sistemi sociali. Per questo è necessario superare l’idea che l’adozione di un bambino da parte di una coppia sia solo un “atto d’amore” che spesso vediamo con simpatia e perfino ammirazione.
Dare ad ogni bambino una casa ed una famiglia è prima di tutto un atto di civiltà, che meglio andrebbe riconosciuto anche nelle forme di aiuto primario alle famiglie disponibili. Nel nostro paese, grazie a dio, non esistono gli orfanotrofi e si cercano tutte le forme possibili (anche para-familiari) per dare affetto e cura individualizzata ad ognuno. C’è anche spesso un secondo lato della medaglia che crea difficoltà nell’adottare: anche se io considero questa azione come “civica” , va detto che non sempre le coppie sono adatte. Non basta averne voglia. E un secondo fallimento per un bambino orfano fin da piccolo è una doppia tragedia. Dunque se da un lato dobbiamo valorizzare l’adozione come atto più vasto e consapevole, dobbiamo anche averne più cura. Sapendo che anche nei bambini naturali con famiglia naturale l’attaccamento presenta forme dolorose di perversione. Penso, ad esempio, ai femminicidi nei quali chi perde davvero tutto sono i figli che restano orfani due volte.
Il diritto alla resilienza
Lo stesso tema dell’adozione mi porta a riflettere su una straordinaria dote umana che spesso ci viene nascosta dalla pietà, dall’assistenzialismo, da una certa barocca forma di pena che abbiamo per chi soffre o ha forme di disagio. Lo stesso Bowlby ci ha insegnato che anche bambini orfani dalla nascita e con gravi forme di deprivazione affettiva riescono ad avere “reazioni forti” alle sfortune della vita sapendo creare legami fin quasi a “cavarsela da soli”. Spesso i bambini adottati hanno eccellenti doti di relazione affettiva e di attaccamento. Insomma, non sempre un destino drammatico nei primi anni di vita condiziona deterministicamente lo sviluppo. Lo psicologo francese Borys Cirulnik, da bambino ebreo rimasto solo durante la guerra perché i suoi genitori sono morti ad Auschwitz, ci ha donato una parola che descrive questo fenomeno: “resilienza”.
La resilienza è una capacità “interiore” di reagire alle sfortune della vita, con forte motivazione all’uscire dal problema. Non riguarda solamente i bambini orfani, ma tutti coloro che per una particolare situazione stanno male, sono indietro, fanno fatica. Penso ad esempio al pianeta disabilità, verso il quale potremmo commettere errori gravi se ci facessimo prendere dalla pietà assistita, riducendo le persone a “piccoli” incapaci di crescere senza aiuti. In questa epoca, una forte medicalizzazione del dolore (diagnosi, bes, terapie, tecniche) sta abbassando la scoperta della resilienza nei bambini, schiacciati in
“pazienti”.
Per chi si occupi di educazione e di welfare, invece, riconoscere e valorizzare la naturale resilienza che ha ogni persona è una leva fortissima di crescita più forte e felice di ambulatori, aulette sostegno, terapie miracolose, tecniche speciali di apprendimento. Per questo considero un diritto pieno il riconoscimento della resilienza nei bambini come dovere degli adulti, capaci di fermarsi dal loro strapotere taumaturgico. Senza farci prendere dalla tenera pietà che ci fa raccapricciare davanti ad un dolore, ma levando (col nostro falso buonismo) a chi abbiamo davanti la speranza di essere se stesso.
Il diritto all’infinito e al relativo
In un’epoca in cui tutto appare, tutto si vede, tutto si dice, sembra non esistere più un “mistero” da scoprire da soli, tanto che i film e le storie infantili debbono riempirsi di trilling sempre più forti fino al grottesco per stimolare fantasie altrimenti satolle di informazioni. Man mano che un bambino cresce scopre la morte, scopre il domani da costruire prima nella mente, scopre il non detto, scopre il silenzio, scopre la scoperta. Ma il come questa scoperta avviene è decisivo per la costruzione dell’identità cosciente di ognuno sul sé e il mondo. Viviamo invece in un’epoca che esonda in soluzioni precotte e nasconde intere aree esistenziali della vita. Si pensi, ad esempio, al trionfo di Halloween (pieno di bambini travestiti da scheletri e mostriciattoli) a fronte della successiva festa del 2 novembre (cimiteri vuoti di bambini perché potrebbero “impressionarsi”).
Penso dobbiamo rivendicare, a nome dei bambini, il loro diritto alla scoperta quasi solitaria del “senso del mondo”, e che questa avvenga in modo autonomo e spontaneo, Che la scoperta avvenga con l’adulto “dietro a lui”, non “davanti” a guidarlo come la vita fosse una gita turistica. Vi sono domande metafisiche, escatologiche, sociali e culturali che il bambino deve farsi da sé, anzi ha il diritto di farsi da sé, per evitare diventi un banale consumatore di teorie e modelli pre-cotti.
Io chiamo tutto questo “diritto all’infinito”, che fa venire i brividi anche a noi quasi-vecchi ma che è essenziale nella formazione di una persona come presa di coscienza della propria esistenza. Esistenza che non è fatta da un eterno presente sempre brillante, ma di ombre, di porte da aprire, di scale da salire, di ignoto da far diventare noto. Accompagna questo diritto un parallelo diritto, altrettanto importante, che chiamo “diritto al relativo”. Nella condizione della globalizzazione dove tutto si vede, tutto appare, tutto si dice, si sta perdendo la “giusta misura” tra ciò che conta davvero e ciò che conta un po’ meno. I gestaltisti lo chiamerebbero figura-sfondo. Ai nostri bambini spesso viene sottratto il senso relativo delle cose, le relazioni asimmetriche tra le diverse cose. Imparare ad esempio ad attendere, imparare che c’è un momento per parlare ed uno per tacere, imparare che c’è un prima, un presente, un dopo per tutto. In quest’epoca dell’eterno presente rischiamo di avere tanti piccoli idioti sapienti, ciarlieri su tutto, ma incapaci di cominciare ad accumulare in sé la saggezza, che conta mille volte di più della sapienza. E tutto questo si deve iniziare a fare molto presto. Perché poi la vita adulta è dura, e non avere il senso del relativo rende le persone incapaci di sognare, di progettare, di soffrire, di andare oltre l’ovvio luccicante del presente.
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