Pontormo e Rosso Fiorentino
Nati tutt’e due nel 1494 a pochi chilometri di distanza (uno negl’immediati contorni d’Empoli, l’altro a Firenze) e poi educatisi all’arte nelle stanze degli stessi maestri fiorentini, il Pontormo e il Rosso sono diventati nella letteratura critica del Novecento i gemelli della “maniera moderna”; anzi, del “manierismo”: abusata formula classificatoria che ha molto influito sull’interpretazione della pittura del Cinquecento e che rivela la sua ambiguità quando appunto si ragioni segnatamente del Pontormo e del Rosso.
Al cospetto d’una presunta consanguineità, la mostra mette in risalto la decisa discordanza delle loro vocazioni, e fin dal titolo lo dichiara senza mezzi termini: Pontormo e Rosso. Divergenti vie della “maniera”. Divergenti, perché i due – diciassettenni o poco più – pur essendo ancora nella bottega di Andrea del Sarto, da subito imboccano strade divaricanti.
Nascono dunque dalla stessa costola, ma all’istante assumono sembianze difformi: gemelli sì, però diversi; oggi si direbbe.
Il comune discepolato viene esibito nella prima sala, dove i loro due giovanili affreschi dell’Annunziata (1513-1514) si dispongono ai lati di quello che il Sarto aveva dipinto, nello stesso luogo, nel 1511. Sarà il Sarto, dunque, a far da iniziale pietra di paragone e a dare la misura del progressivo allontanamento dei due discepoli. Dopodiché basterà secondare il percorso cronologico per seguire le personali preferenze dell’uno e dell’altro: fra loro distanti nella lingua figurativa, nella visione della fede, nell’interpretazione del dato naturale, nel rapporto con la tradizione, nell’approccio con le culture forestiere, nella relazione con l’antico e nella dialettica con l’idioma michelangiolesco. La mostra si chiude proprio col confronto diretto della loro differente riflessione sul magistero del Buonarroti. Il Rosso muore a Fontainebleau nel 1540; il Pontormo a Firenze nel 1557: uno alla corte di Francesco I, re di Francia; l’altro a quella fiorentina del duca Cosimo I de’ Medici.
Tramonta così un’intera stagione di libertà espressiva e si apre – sancita dalle Vite di Giorgio Vasari – la fortuna critica di tempi nuovi.
Carlo Falciani e Antonio Natali, curatori