Pensiero (s.m.): L'attività della mente: a seconda che lo si indichi con un articolo determinativo o indeterminativo cambia sensibilmente ambito semantico. "Il pensiero" indica qualcosa di alto, figlio di un'epoca o di una scuola; "un pensiero" è invece qualcosa di spicciolo, semplice (tranne quando è "un pensiero stupendo" o "un pensiero ossessivo", e gli aggettivi possono instillare il dubbio che quella quotidianità, quelle piccole cose, ne costruiscano di enormi).Nella letteratura, il pensiero gode di uno statuto particolare: è difficilissimo da rendere e ci può distanziare dal testo; per dire il pensiero ci sono molti artifici retorici. Tra questi, nel fumetto, la classica nuvoletta (mumble mumble) e nel romanzo novecentesco il flusso di coscienza. Espedienti così forti che in un testo rischiano di diventare totalizzanti, ricorrenti.
Il pensiero, in generale, si può cogliere anche quando non è esplicitato (e ci sono fumetti, anche intere serie, che fanno a meno delle nuvolette - Julia, per esempio). Il pensiero si costruisce nel corso dell'opera.Dal punto di vista etimologico, pensiero viene dal latino 'pensum', voce del verbo 'pendere', "pesare": era una certa quantità di lana grezza corrispondente a una 'pesata'. A indicare non che il pensiero sia una roba 'pesante' quanto che i pensieri sono la materia grezza che, intessuta e lavorata, produce discorso e ragionamento: il pensiero, un pensiero, non esiste mai da solo ma ha bisogno di intreccio e trama (ne abbiamo già parlato in questa rubrica).Terribile diminutivo del pensiero è il "pensierino", inteso anche come pratica scolastica: oggetto di esercizio privo di pensiero, non viene mai intessuto o lavorato, ma lasciato lì, del tutto privo di contesto.
Indice (s.m.): Il dito della mano con cui si indica, e per estensione tutto ciò che indica e mostra; "ìndice" in questo senso è anche segno di qualcos'altro (indice di confusione, indice dei nostri tempi), è una misura o un rapporto tra misure (indice di rifrazione, indice toracico, indice Dow Jones), e in un libro è il luogo dove si organizzano i contenuti.
L'indice, anche etimologicamente, è proprio 'ciò che indica', dalla radice sanscrita dik- da cui anche 'dicere' e quindi 'dire'. L'indice quindi è qualcosa che dice mostrando, puntando il dito.
Dire e indicare sono due cose ben diverse: l'indice non parla ma punta al cuore del discorso. C'è una bella pagina satirica, ambientata da Jonathan Swift nell'Accademia di Lagado, dove Gulliver assiste a una proposta di lingua basata solo sul gesto di mostrare gli oggetti a cui ci si riferisce.
Ad ogni modo, l'indice è un oggetto parlante, una conversazione per sommi capi, qualcosa che mostra la direzione. Per molti la prima cosa che si guarda in un libro è l'indice; d'altra parte molti dichiarano anche che la prima cosa che guardano in una donna (o in un uomo) sono le mani.
Perché delle cinque dita della mano si usa solo l'indice per indicare? Probabilmente per la sua posizione, che lo rende più comodo: analogamente, l'indice di un libro sta in cima o in fondo al volume (e non in mezzo), a seconda che si voglia guidare il lettore nella lettura o ritrovarlo in un secondo momento.
Pubblicare (v. tr.): Rendere di pubblico dominio: azione talmente fondamentale che nei paesi di lingua inglese l'editore è detto direttamente 'publisher', colui che pubblica, mentre editor è quello che lavora sui testi.
Il verbo 'pubblicare' si applica anche al di fuori dell'editoria libraria, e riguarda giornali, annunci, social network, siti web... Il momento della pubblicazione altro non è che l'istante in cui si decide che è ora che quelle parole trovino un pubblico, diventino pubbliche. Si decide, o più spesso si spera, che un certo discorso riguardi un numero più ampio di persone.
Se scrivere è un'azione anche intima e personale, pubblicare presuppone un pubblico: si scrive in questo caso per incontrare qualcun altro.
E dall'altro lato dell'incontro noi quando leggiamo, non siamo mai pubblico, cioè un'entità vasta e indefinita: siamo quelle persone che appartengono o non appartengono a quella cosa che leggiamo. E che può farci sentire parte di un tutto.
Mentore, Virgilio, Cicerone, Anfitrione, Pigmalione (s.m.): Spesso i personaggi di un libro (a volte anche gli autori: ma qui Virgilio compare in veste di personaggio) diventano nome comune per indicare delle qualità o delle caratteristiche riconoscibili ed eccezionali. Mentore è qualcuno che sa valorizzare e tirare fuori qualità (educa il giovane Telemaco nell’Odissea), Virgilio è una guida speciale (accompagna Dante nella Commedia), Anfitrione è un grande ospite (dal mito reso celebre dalla commedia di Plauto), Pigmalione si affeziona ai suoi giovani protetti (dal mito raccontato da Ovidio, con le successive reinterpretazioni), Cicerone è un accompagnatore (ed è personaggio delle sue stesse orazioni, volendo).
Un nome proprio che diventa comune è un ‘eponimo’: tanti eponimi riguardano malattie, invenzioni, luoghi geografici (toponimi eponimi, allora). Tanti sono i sinonimi di guida e maestro, compagno di viaggio, e quasi tutti sono eponimi.
Perché un libro e una storia sono anche questo: compagni di viaggio silenti, che ci fanno scoprire cose di noi che conoscevamo e ancora non avevano una forma o un nome.
Libreria (s.f.): mobile dove tenere i libri, luogo dove vendere i libri.
L'inglese, che è lingua più pratica, distingue le due occorrenze chiamandole rispettivamente 'bookshelf' e 'bookshop': ma la confusione italiana è invece preziosa, perché fa intuire che la libreria non è tanto un negozio quanto una casa dei libri.
Tra questi due estremi, casa e negozio, si stanno giocando molti dei dibattiti sul futuro delle librerie indipendenti: c'è la possibilità di essere casa, e di ospitare la vita che gira intorno ai libri, e che di solito ha una fruizione solitaria; e c'è la possibilità di essere solamente negozio e sempre più negozio.
Essere una casa dei libri significa avere dei buoni padroni di casa, offrire spazio per sedersi e vivere il luogo, creare occasioni di incontro, pensare alle luci, pensare ai lettori, significa offrire cose buone da leggere, perché chi viene da te cerca qualcosa di buono e si fida del tuo gusto.
Comprate libri, comprateli in libreria. È un luogo prezioso.
Messaggio (s.m.): Una comunicazione inviata da qualcuno a qualcun altro. La storia della comunicazione è una storia di messaggi: di modi di mandarli, di codificarli e decodificarli, di renderli poco o molto comprensibili. La storia recente della comunicazione ci suggerisce che i messaggi siano la versione più breve e sintetica di qualcosa che si vuole dire: sono 'short' (come nell'acronimo SMS, short messaging system) o 'instant' (nel termine che abbraccia tutte le chat, 'instant messaging' da cui Messenger o altri servizi simili).
La letteratura non c'entra molto con la messaggistica: il messaggio, il 'cosa' si sta dicendo è solo una delle dimensioni della scrittura. Altre dimensioni pongono più attenzione al mittente o al destinatario, al canale, al contesto o al codice.
Una vecchia domanda che ancora, subdola, compare nelle interrogazioni scolastiche è "Qual è il messaggio?", posta di solito in coda a un intero libro. Ironicamente, dopo che il primo della classe (o il più ruffiano) ha detto qual è il messaggio di Guerra e Pace (per esempio), qualcuno commenta a bassa voce "Non bastava una telefonata?".
Durante l'interrogazione il messaggio tende a diventare il messaggino.
Non impariamo dai messaggi: impariamo e familiarizziamo con mondi e personaggi, con esperienze di vita, con emozioni, con stati d'animo. Son cose che contano, per cui leggiamo libri, e di cui merita parlare.
(Amare parole, 6 marzo)
Parola (s.f.): La minima parte del discorso. La parola 'parola' viene da 'parabola', nel senso di 'insegnamento' e di 'discorso': così in tutte le lingue neolatine, dove si sostituisce a 'verbum' che passa a indicare la sola 'parola del Signore'.
Per compiere questo passaggio, però, prende a prestito un termine, parabola, che è proprio del Vangelo. Succede. Ci sono parole che sono potenti, e 'parola' lo è. Potere alla parola.
Le parole possono stare insieme una accanto all'altra, come in un discorso; oppure essere riordinate alfabeticamente, e allora costruiscono un 'lessico'. Ogni sapere specifico ama ridire le stesse cose con nuove parole, per dirle con rinnovata precisione.
Un lessico familiare è invece un insieme di parole che hanno un significato affettivo, legato a un contesto che spesso si ricorda anche come sono nate.
Siamo infatti vestiti di parole: e cambiamo le parole che usiamo a seconda del contesto. Ci sono parole in pigiama e pantofole, parole in camice o cravatta, parole in divisa e parole in libertà.
Alcune parole si gustano dicendole per ore, facendole girare in bocca: le parole hanno tutte un gusto particolare.
Genere (s.m.): Una categoria che abbraccia altre sottocategorie; in letteratura esistono i "generi letterari" (e per converso la "letteratura di genere") come il noir, il giallo, il fantasy, la fantascienza... Analogamente esistono generi musicali, generi cinematografici e generi alimentari, generi di prima necessità e così via.
Esiste anche una 'questione di genere': il genere è in questo caso l'articolazione grammaticale, linguistica e quindi culturale tra i vari 'generi' - in italiano maschile e femminile (ma in molte altre lingue anche neutro: le lingue non sono naturali). Analogamente esistono 'studi di genere' che affrontano, seriamente, temi ampi come la discriminazione, la costruzione di stereotipi culturali, le dinamiche sociali. In inglese 'genere' si dice 'gender' quando si parla di questi temi, e per esempio 'genre' quando ci si riferisce invece ai generi letterari.
In entrambi i casi il "genere" è una sovrastruttura che permette di semplificare il discorso per farlo capire meglio: purché ci si ricordi che ogni 'genere' abbraccia sottocategorie e individui. Altrimenti diventa stereotipo: gli stereotipi di genere, che si parli di letteratura o di persone, non aiutano e sono pericolosi. Vanno conosciuti e il più possibile fermati.
PS: Quando qualcuno usa una parola inglese al posto di una italiana ('gender', ma anche 'mission' o 'jobs act') di solito vuole confondere le idee o spaventare. A volte anche tutte e due le cose insieme. Ok?
Incredibile (agg.): Qualcosa cui è difficile credere. La letteratura è tutta qualcosa di incredibile che chiede di essere creduta.
Ogni racconto parla di qualcosa di inventato (o di 'romanzato', altra bella parola) che non sarà reale, ma è vero: nella misura in cui sono vere le persone di cui parla la storia e le loro vicende, nella misura in cui sentiamo quel racconto come qualcosa cui apparteniamo, e che ci appartiene.
I teorici della letteratura, i narratologi, parlano di "sospensione dell'incredulità" come qualcosa che avviene all'inizio del racconto, in un 'contratto con il lettore'. Per chi legge, questa sospensione avviene in momenti diversi, e non è mai una cambiale in bianco. Semplicemente, crediamo a un racconto incredibile perché sentiamo che parla di noi. È questo lo spazio incredibile in cui la letteratura ci educa.
Lupo (s.m.): Animale che si trova proverbialmente nella favola.
Del lupo è più facile parlare visivamente, perché ogni illustrazione di lupo mostra un lupo diverso, un suo carattere particolare. E i lupi sono tanti perché il lupo (da un certo punto in poi, almeno) rappresenta tutto ciò che è inconscio: è la fame, è la bestia nera, è ciò che rapisce, è il desiderio per cui cambiamo strada. Quel lupo nelle fiabe finisce sempre male, mentre nelle favole di solito se la cava. Nei racconti moderni il lupo è qualcosa da affrontare, qualcosa con cui convivere - qualcosa che si conosce e che si va a trovare nel bosco che c'è dentro. Non perché si debba sempre convivere con tutto: perché rappresenta (per i moderni e i contemporanei) una parte vitale, più vitale del cacciatore, più vitale della nonnina o della merenda. Il lupo si può addomesticare, e così fa tanta letteratura; con i lupi si può correre o ballare; i lupi sono nei muri. I lupi, nella letteratura per ragazzi, compaiono nelle inquietudini che segnano i momenti di passaggio.
Infine, da noi, il lupo è apotropaico. Si dice "in bocca al lupo"; io rispondo "viva il lupo".
Aforisma (s.m.): Forma di scrittura pigra che, quando funziona, rimane impressa nella mente. O sull'incarto dei Baci Perugina.
La scrittura breve è logorata dall'uso che se ne fa in pubblicità: pure, rimane una delle dimostrazioni più forti della meraviglia che possono suscitare le parole giuste.
Gli aforismi sono perfetti per gli scrittori che vogliono comunque rispettare una consegna (tipo, che è tardissimo).
Scuola (s.f.): Istituzione educativa, la parola passa presto a indicare anche i seguaci di un certo genere o allievi di un certo autore. C'è una scuola stilnovista, una scuola marinista, così come in pittura ci sono "scuole" simili.
In origine, come è noto, la scuola era la greca 'skolé', un'occupazione piacevole del tempo libero, un ozio. Un'idea ben lontana dalla 'scuola azienda' o dalla produttività. La scuola è un privilegio (etimologicamente) ed è un luogo non per insegnare ma per imparare.
La scuola è un'istituzione, così come lo è la giustizia, per capirsi: non è un servizio ma qualcosa che ha un fine che riguarda un'intera nazione, oltre ai singoli.
Nella letteratura, 'di scuola' viene usato (anche a scuola) come dispregiativo, a indicare che manca forse il genio di un autore: è un peccato, perché per secoli l'arte è stata fenomeno collettivo oltre che singolare, è stata discussa e costruita in gruppo; ed è un peccato perché l'analisi delle opere di una certa scuola ci permette di intuire quali fossero le parole e i valori in discussione. Della sacralità dell'autore (contrapposta alla scuola) non ce ne facciamo invece quasi nulla.
Cancellare (v. tr.): Eliminare qualcosa fisicamente, con un tratto di penna, coprendo di bianco o togliendo con la gomma.
Cancellare è una di quelle parole dall'etimologia appassionante: si "cancella" perché si pone qualcosa di scritto dietro a una grata, un cancello, la si sottrae alla vista; a sua volta il "cancello" viene da un 'cancellum' che è diminutivo di 'cancer', un granchio o granchietto, evocato visivamente dalla forma delle sbarre che si incrociano; da 'cancello' viene anche il 'cancelliere', factotum addetto al controllo degli ingressi che diventa molto importante, se non il ruolo più importante di una nazione: il Cancelliere.
Se il cancelliere è potente, anche cancellare è un'azione di potere: si può ordinare di cancellare certe parole, si possono cancellare su un compito segnandole come errore, oppure dopo averle scritte si possono cancellare per un ripensamento. La parola scritta, il disegno, passano per la revisione e il pensiero: cancellare è chiudere una via (col cancello) e aprirne un'altra.
In questi giorni l'azione del cancellare è diventata simbolica: a Bologna gli organizzatori di una mostra sulla Street art hanno iniziato a staccare e conservare dalle pareti opere d'arte nate per stare sulla strada (senza chiedere permesso, va detto, agli artisti); dall'altra uno di questi, Blu, ha deciso che preferiva cancellare le sue opere piuttosto di vederle tolte dalla strada su cui erano nate. L'azione è forte, e ha chiaramente e nettamente chiuso una via che diamo per scontata: che ogni forma d'arte debba passare per circuiti noti di mostre e musei e che la strada non appartenga a questo circuito. L'artista ha espresso un suo potere, e ci ha così svelato rapporti di potere affatto scontati.
Cancellare: verbo transitivo.
Incontro (s.m.): Voce del verbo "incontrare": l'occasione in cui persone (o concetti, o cose, in senso traslato) si incontrano.
Nella pratica quotidiana della scuola "l'incontro" è incontro con l'autore: un'occasione per confrontarsi con chi scrive per ragionare intorno a un testo o alla sua genesi.
Un incontro non è un'interrogazione (semmai, un interrogatorio): come autore mi sento a disagio quando l'incontro diventa un'occasione per far vedere quanto sono preparati i ragazzi. In un buon incontro (con l'autore e anche in generale) non ci sono risposte già pronte, ma si cerca insieme il senso di qualcosa (di un testo, di un modo di scrivere, della scrittura o della lettura).
Tutto lo studio della letteratura è un'occasione di incontro: non trasformiamolo in una interrogazione. Non si legge per imparare formule, e analogamente non dovremmo costruire la scuola intorno alla verifica di quelle formule: il "pessimismo" di Leopardi, la "provvidenza" di Manzoni, l'ermetismo di Ungaretti.
Immaginiamo di incontrare Leopardi, Manzoni, Ungaretti: e cerchiamo di non farli sentire a disagio.
Vita (s.f.): Secondo John Lennon, "Quello che ti succede mentre sei occupato a fare altri programmi".
Nello studio scolastico della letteratura, la vita ha uno statuto ambiguo: da una parte compare in forma di biografie e di note al testo; dall'altra la vita viene espunta perché, parafrasando John Lennon, nell'analisi di un testo non dovrebbe contare l'occasione scatenante, "quello che succede", ma i "programmi" stilati dall'artista.
La vita però è anche la vita di chi legge: e questa non andrebbe sacrificata o espunta. La vita di chi leggendo qualcosa sente che gli serve, che le serve; la vita di chi decide di copiare un brano; la vita che suggerisce che una certa pagina è terribilmente noiosa (e priva di vita).
No, la vita degli autori non spiega tutto, mai: e forse non conta così tanto come un vecchio modo di far critica letteraria suggeriva; però conta e dovrebbe contare la vita dei lettori. Che magari scoprono un brano o una canzone o un racconto o una poesia o un romanzo mentre sono occupati a fare altri programmi.
Memoria (s.f.): La capacità di ricordare e al tempo stesso l'oggetto del ricordo. In letteratura una 'memoria' (o più spesso un 'memoire') è un testo che ricostruisce un evento particolare, che sta all'autobiografia come il racconto sta al romanzo.
Tra gli aggettivi positivi che si possono applicare alla scrittura c'è anche 'memorabile', qualcosa che resta, qualcosa che si ricorda. Singolare, perché la scrittura è anche uno strumento per sostituire, per esternalizzare la fatica del ricordo: "me lo scrivo".
Un tempo la memoria era una delle qualità fisiche dello studio della letteratura: almeno quando si "mandava a memoria". Esercizio in realtà positivo quando costringe a stare sul testo, ad apprezzarne i dettagli, un po' come un puzzle costringe a guardare meglio i colori di un'immagine.
Mandare a memoria è anche una sorta di test sulla tenuta del testo: ci sono testi che si ricordano bene e altri no; e torniamo al 'memorabile', rendendolo stavolta misurabile: ci sono testi che si ricordano bene.
Per quanto riguarda invece i 'buchi di memoria', la letteratura li racconta con eleganza ed efficacia. Ma non mi ricordo dove di preciso.
Gratis (avv.): Non retribuito, senza pagamento. La parola è presa direttamente dal latino 'gratiis', con contrazione della doppia i nell'ablativo plurale di gratia ('favore', 'grazia'). Alla lettera, quindi, gratis è il plurale di "per favore": qualcosa è gratis perché è doppiamente per favore. Dalla stessa radice viene anche 'grazie'.
Il concetto di 'gratis' è quindi leggermente diverso da espressioni analoghe come le inglesi "free of charge" (sinteticamente 'free'), "complimentary", "on the house". Gratis è parola usata in molte lingue e ricorda il fatto che qualcosa è gratis "grazie" a qualcuno.
Nell'economia del dono (quella dove tutto è gratis) la gratuità è solo parte di un fitto sistema di scambi, di debiti e di obblighi reciproci. Tante cose sono gratis perché non tutto si paga con i soldi.
Altre cose sono gratis perché non possono essere privatizzate (e quindi sarebbe un po' folle venderle): le barzellette, le chiacchiere, molte delle cose che ci rendono vivi.
Gratis non significa che 'non vale niente'.
Cosa c'entra?
A parte che è una bella parola, c'entra perché l'educazione all'immagine, alla parola, all'ascolto fanno fatica in un mondo dove la cultura è poco monetizzabile. Tocca da una parte ricordare che valgono, e producono ricchezza; dall'altra che la ricchezza non è tutta produzione.
Descrizione (s.f.): Passo che si ammira oppure si salta, a seconda dell'età e dello stato d'animo.
Le descrizioni, come poche altre cose in letteratura, esprimono i gusti di un'epoca.
Andrebbe fatta una galleria di descrizioni, come si fanno sale intere di vedute.
Immaginatevela da soli.
Precario (agg.): Contrapposto a stabile, qualcosa che ha raggiunto un equilibrio solo temporaneo. È parola usata in particolare, ai giorni nostri, per parlare di lavoro.
'Precario' viene dal latino, ed è una parola del diritto romano: è una forma di contratto in cui qualcuno dà qualcosa a qualcun altro in virtù delle sue preghiere. "Preco" per preghiera è parola usata a lungo, e molto (naturalmente) anche in Dante.
Già in epoca classica però 'precario' significa anche temporaneo, mutevole: lo troviamo (naturalmente, di nuovo) nelle Metamorfosi di Ovidio.
A volte ci sono parole che sembrano così moderne che dimentichiamo quanto siano antiche: e vederne la storia in prospettiva ci fa capire un po' di più cosa stiamo vivendo. Anche quando siamo in situazioni precarie in virtù di qualche gentile concessione e delle nostre preghiere; o quando vediamo ciò che ci accade, questa epoca intera, come un momento di metamorfosi terribili e mutevoli, ma vive.
Che poi nel modernissimo ventunesimo secolo la maggior parte dei contratti di lavoro affondino nel diritto romano, questa è un'altra storia.
Stile (s.m.): Qualcosa di impalpabile che ci permette di identificare un autore o una corrente letteraria (e non).
La parola viene direttamente dal latino 'stilus', che indicava la penna con cui scrivere (lo stilo, da cui stilografica): da qui stile/stilo indica il segno dello scrittore, che da aspetto grafico diventa 'voce' e quindi 'stile'.
Poi, dalla letteratura, la parola passa a indicare gli stili artistici, architettonici, musicali, fino a indicare lo "stile" tout court, come una qualità propria delle persone. Non si ha semplicemente "uno stile" ma "si ha stile": e allora è sinonimo di eleganza. Viviamo immersi nella letteratura, anche quando non lo sappiamo.
Riconoscere la voce di un autore è un arricchimento importante, e può essere quasi istintivo: nel momento in cui leggiamo dentro la nostra testa può prendere corpo una voce, ed essere una voce diversa ogni volta, a seconda dello stile. Leggendo ad alta voce si impara anche questo.
Etimologia comune ha anche un pugnale, lo 'stiletto', che passa poi a indicare un certo tipo di tacco alto (e il cerchio si chiude con lo stile). Ne ferisce di più la penna, lo stiletto o la spada? Alcuni stili non feriscono affatto, e spesso è un peccato.
Incantesimo (s.m.): Magia o formula magica, dimostrazione pratica e fantastica di come si possano "fare cose con le parole".
Le formule magiche, anche prima di Harry Potter, anche prima di Gandalf, sono sempre state precise e (perciò) efficaci. Sono una splendida dimostrazione che noi, sempre, da sempre, facciamo cose con le parole: le parole sono potenti, e per questo vanno scelte e ordinate, possono essere studiate e abbinate, hanno dei segreti e della magia.
Sapere questo, conoscere l'incantesimo delle parole, è quasi un prerequisito per trovare interessante lo studio di una lingua: ogni lingua è qualcosa che conosciamo solo quando ci stupiamo di non conoscerla.
Ruota (s.f.): Oggetto circolare in grado di trasformare l'attrito radente in attrito volvente, e quindi di trasportare con minor fatica oggetti di un certo peso. Tipo la carta stampata.
Una persona che si occupa di libri sa che un paio di ruote può salvare la schiena e anche il cuore. I libri hanno una loro dimensione fisica evidente a chi i libri li porta in giro (certo, esiste anche il libro elettronico: ma anche per acquistare quello c'è un carrello elettronico).
La ruota ci ricorda che anche le quantità sono importanti: colonne di libri che sottolineano l'importanza di un singolo titolo, ma anche tanti libri diversi che suggeriscano come la magia della lettura non avvenga mai dentro il libro perfetto ma sempre attraverso tanti libri diversi.
La ruota è poi proverbiale: la ruota gira; e anche i libri girano: girano le pagine, girano i libri fra i lettori, girano gli zebedei quando un libro non è come ce lo aspettavamo. E in tutto questo girare, gira anche il tempo: che non è mai abbastanza per leggere (di nuovo, le quantità sono importanti) ma che si dilata quando leggiamo: e come una ruota ci lascia dove eravamo partiti, ma avendo fatto il giro, il giro del mondo, e il giro di noi stessi.
Non sarà romantica, la ruota, ma è pratica: e anche la pratica è importante.
Saggezza (s.f.): Una qualità affine all'intelligenza, ma particolarmente difficile da definire.
Un teorico dell'intelligenza artificiale, Roger Schank, nel suo "Tell me a story", definisce l'intelligenza come la capacità di prevedere il futuro sulla base della conoscenza del passato: che è una definizione abbastanza sorprendente.
Ancora più sorprendente è la sua definizione di saggezza: "la capacità di raccontare la storia giusta al momento giusto", accompagnata dal fatto di conoscere un sacco di storie da raccontare.
Le storie allenano la nostra capacità di empatia, e rinforzano il nostro legame con la realtà (per quanto Don Chisciotte non sarebbe forse d'accordo): una realtà fatta non di numeri e dati, ma di persone.
Le storie giuste al momento giusto non spaventano, ma aiutano a capire e a crescere: sono raccontate proprio per noi, e non a vantaggio di chi le racconta. La saggezza è generosa.
Personaggio (s.m.): Una persona che compare in un'opera artistica o letteraria; per esteso, è personaggio una persona che fa qualcosa di memorabile.
La parola ha un'etimologia semplice, derivando da persona; ma 'persona' è invece una di quelle parole con una nascita ricca e sorprendente. 'Persona' viene dal latino 'per-sonare', risuonare, perché indicava la maschera usata in teatro, dentro cui la voce dell'attore risuonava più potente. La persona è la maschera dietro cui si nasconde, e che indossa per far suonare più potente la propria voce.
Analogamente il personaggio è una maschera dentro una commedia, intorno a cui si costruisce la partecipazione del lettore. Un personaggio è uno strumento conoscitivo, e avviene per come risuona dentro di noi. Suonare, ancora. E risuonare.
Il racconto è sempre fatto di suoni e vibrazioni, movimenti e sintonie.
AA.VV. (sigla): Autori vari, a indicare sommariamente chi ha scritto, messo insieme o assemblato, o anche semplicemente chi compare in un volume collettaneo.
'Autori vari' è una bandiera bianca alzata da chi ha dovuto catalogare un certo volume: l'editore, il bibliotecario, o altre figure che costruiscono la classificazione delle opere. Le classificazioni non ammettono caselle vuote e amano invece informazioni solo apparentemente esaurienti.
È anche una sigla che fa problema: siamo abituati a pensare che ogni testo sia opera di una persona, l'Autore; diffidiamo dei testi non intenzionali, delle opere nate intorno a un incontro, e siamo ancora legati a un'idea dell'opera come frutto di ispirazione.
Eppure anche l'ispirazione è collettiva, nasce dagli scambi, dal confronto, da vedere cosa dicono e scrivono gli altri. E ci possono essere testi inutili con un autore dichiarato, e testi incredibili e meravigliosi scritti insieme da più persone.
La scrittura può anche essere plurale: lo è dentro l'antologia, nelle riviste, nei quotidiani, sul web; lo è anche in classe, e anche per questo dovremmo valorizzarla. Che ne so, con uno slogan: "L'autore è bello perché è vario".
Alto (agg.): Opposto a basso, categoria che è definita e aiuta a definire un canone letterario o artistico. La scuola ha spesso la pretesa di trasmettere ciò che è alto senza razzolare troppo nel basso, o di elevare ciò che è stato fino a poco tempo prima 'basso' descrivendone pregi.
Nonostante ciò, gli artisti da sempre rinnovano queste categorie e vi giocano allegramente dentro: Umberto Eco e Paolo Poli, per citare due persone che ci mancano già, hanno fatto cose meravigliose maneggiando elementi 'bassi' e mischiandoli con cose 'alte'.
La letteratura, l'arte, difficilmente si caratterizza per altezze: sono altre le dimensioni che interessano e toccano tutti; la vastità, l'apertura, l'esattezza, l'efficacia... cose che possono risuonare immediatamente al singolo lettore e che si sentono a pelle.
Nel gergo universale degli studenti, "basso" è un libro corto, "alto" uno lungo (e perciò più temibile). Certe cose, per altro, "cadono dall'alto" quando non attingono all'esperienza. Altre cose "si costruiscono dal basso". Difficile è al contrario far cadere dal basso, o costruire dall'alto.
"Bassità" traduceva il t9 quando non capiva la parola "caspita". La trovo una bellissima esclamazione per chiudere il discorso.
Passione (s.f.): Qualcosa che l'animo subisce, e che per ciò trasforma. Per i cristiani è la Passione di Cristo, per i lettori la passione è ciò che accompagna la lettura.
Passione viene dal verbo latino patire, che a sua volta viene dal greco pathos: etimologia comune a voci come "impassibile", "passivo", "spassionato", "appassionato", "empatia", "simpatia".
La passione, nell'esperienza di lettura, trasforma la "passività" in attività interiore, seguendo le orme del testo, e rivivendo le emozioni. Un buon libro è appassionante, perché ci riguarda e ci suggerisce che il mondo è sempre cosa che ci riguarda.
Diminutivo (categoria grammaticale): Affine al vezzeggiativo, espediente della lingua italiana per sminuire la potenza di una parola. Rientra tra le alterazioni.
Così alla Pasqua segue la Pasquetta, dopo la tombola si può fare la tombolina, e i nostri cartoni animati si riempiono di topolini, gattini, micetti, cagnolini, pesciolini e tartarughine.
Il diminutivo appartiene così tanto a quel linguaggio che parlano gli adulti ai bambini (oh, prendiamo un gelatino? vuoi una caramellina? smetti di cantare la canzoncina!) che quando si arriva alla scuola secondaria è ammantato di sospetto: e niente possono più la "fanciulletta mano" o i "rondinini".
Il diminutivo smorza la potenza del linguaggio ma ne aumenta le sfumature: quando lo si usa dovremmo ricordarci come la vita ci offre delle età in cui apprezziamo le sfumature e altre in cui apprezziamo la potenza.
Museo (s.m.): Edificio preposto a ospitare una collezione, per esteso la stessa collezione.
La parola museo viene direttamente dalle muse greche, come se fosse idealmente una casa delle arti patrocinate dalle muse stesse. Purtroppo, nel linguaggio corrente, il museo è percepito invece solamente come qualcosa di polveroso, di vecchio, di stantio. Così l'odiosa battuta "dietro liceo, davanti museo".
Per i musei stanno invece passando alcune delle cose più nuove e interessanti: i musei accolgono, si aprono, mostrano e fanno laboratori. Spesso, quasi sempre, sono meno ingessati dei licei.
Gli autori letterari hanno, ogni tanto, dei musei, che mostrano dove hanno vissuto o lavorato. Niente di più di ciò che ci si aspetta da una persona famosa: eppure, la letteratura meriterebbe di meglio. Della concezione moderna di un museo, per esempio, la capacità di incuriosire, appassionare, far provare.
Le muse approverebbero.
Ciclo (s.m.): Opera che vede più eroi alternarsi intorno allo stesso tema o compito; di solito se è un ciclo è antico (come il ciclo arturiano o quello carolingio), mentre se è moderno è una saga (come il Signore degli Anelli o Twilight, per capirsi).
Cicli e saghe manifestano una attitudine antica e moderna insieme dell'epica: la voglia che la storia non finisca, o almeno che possa essere vista sotto molteplici sfaccettature, con più protagonisti e con luoghi affollati e fantastici.
I libri finiscono: le storie continuano.
Agiografia (s.f.): Alla lettera, vita di un santo; in senso traslato, il termine è passato a indicare qualsiasi biografia troppo condiscendente nei confronti della vita raccontata, di cui tesse solo lodi e miracoli.
I generi letterari a volte hanno confini labili: le agiografie sono testi illeggibili e poco divertenti; le vite dei santi sono invece godibili e popolari, almeno lo sono quelle celebri di Jacopo (o Giacomo) da Varagine (o Varazze). Perché le vite dei santi erano pensate anche per il popolo, e dovevano essere interessanti e miracolose, piene di fatti sorprendenti: e altrettanto dovevano fare gli affreschi e le immagini miracolose.
Interessanti significa anche a volte cruente, terribili, incomprensibili. Sfiorando un altro confine labile, quello tra mitologia e storia religiosa: il mito sorprende e non ha alcuna pretesa di coerenza. Suggerisce che viviamo immersi nelle storie, e nelle storie riceviamo più di un battesimo.