La cicogna che sorveglia i barconi - Adrián N. Bravi
La favola del contadino di Pian di Venola - Ugo Cornia
Il ritorno del pappagallo - Giovanni Maccari
Primo catalogo dei dinosauri gentili - Gianfranco Mammi
Piccole trasformazioni dell'aula scolastica - Jacopo Narros
Tito distratto - Daniele Zinni
I disegni che accompagnano l'antologia sono di Giovanni Maccari.
Adrián N. Bravi
Sono una cicogna bianca con la coda nera, il becco lungo, un po’ a punta. Mi chiamo Crispina (non so chi è stato il primo a chiamarmi in questo modo, non è stata una bella idea, secondo me, con tutti i nomi che ci sono, però ormai mi chiamo così e mi tengo il mio nome). Migro da un posto all’altro, come tutte le cicogne, ma due anni fa ho deciso di non spostarmi più insieme al mio stormo e di andare da sola.
È successo così: stavo sorvolando il mare con un’altra decina di cicogne e all’improvviso ho visto sulla superficie dell’acqua un barcone pieno di gente che faceva su e giù in mezzo alle onde. Dall’alto sembrava piccolo, però man mano che mi avvicinavo s’ingrandiva sempre di più e scorgevo tante teste, una incollata all’altra. Mi sono staccata dal gruppo per andarlo a vedere più da vicino.
Il sole non era ancora spuntato sul mare e sull’orizzonte c’era un fascio di luce arancione che illuminava tutto. Io volavo sopra il barcone, a circolo (come fanno gli avvoltoi). Qualcuno, mi ricordo ancora, ha alzato la testa per vedermi volteggiare. Poi ha alzato la testa un’altra persona, e poi un’altra ancora. Altri non ce la facevano ad alzare la testa.
Le cicogne che erano rimaste su in alto mi urlavano da lontano: “Crispina, vieni su, dobbiamo proseguire… Non ci possiamo fermare qui”. “Andate pure, vi raggiungerò a terra… Voglio vedere perché mi guarda quella gente...”, ho risposto indicando le teste sul barcone.
Non mi piaceva staccarmi dalle altre cicogne, si capisce, ero cresciuta in mezzo a quello stormo, ma non potevo lasciare quel barcone da solo in mezzo al mare, così, in preda alle onde. Per ore e ore sono rimasta a sorvegliarlo dall’alto, finché è arrivato su una spiaggia deserta e la gente si è buttata in acqua e poi, finalmente, si è sdraiata sulla sabbia, stanca e con poco fiato.
Un ragazzino durante la traversata non mi aveva mai staccato lo sguardo di dosso, e quando io mi avvicinavo, andavo giù in picchiata per poi riprendere quota, si metteva un po’ a ridere, come se stessimo facendo un gioco.
Da quel giorno seguo la gente sui barconi, anche loro sono migranti come me e come tutte noi, cicogne migranti, che ogni anno facciamo avanti e indietro attraverso il mare. Certe volte vorrei scendere ancora più giù di quanto faccio, ma non ci riesco; ho paura che poi l’acqua non mi faccia più risalire. So che se cado tra le onde qualcuno dei viaggiatori potrebbe aiutarmi. So anche, però, che sono in tanti sopra quegli zatteroni e che forse non potrebbero fermarsi per raccogliermi. Le persone non possono pensare agli altri quando sono su quei barconi: riescono appena a badare a se stesse; sono in balìa del mare, come quando noi, cicogne migranti, andiamo da un posto all’altro, e siamo in balìa dell’aria e del tempo.
E poi, la mia vita è lassù, vicino alle nuvole, non sulla superficie dell’acqua. Ma penso alle volte che nemmeno la loro vita, la vita di quelli sui barconi, è sul pelo dell’acqua, dovrebbero stare liberi tra acqua e terra, come fanno tutti gli uomini.
Ogni tanto qualche stormo di cicogne passa sorvolando il mare. Tra di loro commentano, lo so, perché una volta le ho sentite: “Quella laggiù è Crispina, la cicogna che accompagna i barconi fino alle spiagge deserte”, e ridono. Io lo so che non serve a niente accompagnare i barconi fino alle spiagge deserte, ma non posso fare altro per questa gente che mi è simile.
Sorveglio i migranti dall’alto e quando qualche barcone resta a dondolare tra le onde, senza riuscire più ad andare avanti, io aspetto che arrivino le barche col motore a portare via la gente che è rimasta a galleggiare sulla superficie con le braccia aperte. Sembrano me quando volo, solo che loro non si muovono, si lasciano dondolare sul pelo dell’acqua. Per ora, l’unica cosa che mi rimane da fare è non distogliere lo sguardo e continuare ad accompagnare questi simili nel loro viaggio. Sperando da sopra che abbiano fortuna.
Ugo Cornia
C’era un contadino che era riuscito a andare in pensione e aveva smesso di coltivare i suoi campi. L’unica cosa che faceva era segare l’erba tre volte all’anno perché non diventasse troppo alta. Però non gli piaceva che i suoi campi fossero vuoti. Quindi in un campo che stava di fianco alla Porrettana ci aveva messo dei nanetti di quelli da giardino di gesso colorato, così la gente che passava in macchina poteva guardare i nanetti e annoiarsi meno mentre guidava. Però, visto che era uno di campagna, i nanetti non gli piacevano. Preferiva gli animali. Allora ha tolto i nanetti e ha messo nel suo campo degli animali di gesso colorato, e ci aveva messo un contadino di gesso, una mucca di gesso, un maiale, un cinghiale, un capriolo, una volpe, un cervo, una gallina, un tasso, un fagiano, una cornacchia tutti di gesso. E quindi il campo era diventato pieno di animali di gesso.
Soltanto che un giorno mentre passeggiava ha visto un cinghiale e gli è venuta un’idea, allora è andato dal cinghiale e gli ha detto: ciao cinghiale, e il cinghiale gli ha detto: ciao contadino.
lavori in questo periodo?
no, sono rimasto disoccupato.
hai voglia di venire in un mio campo a far finta di essere un cinghiale di gesso?
quanto si prende?
200 euro al mese più vitto e alloggio gratis. Però devi fare un corso per imparare a stare fermissimo e a fare la statua.
va bene, vengo.
lo conosci un cervo?
sì.
mi porti dal cervo che vorrei assumere anche un cervo?
va bene.
Allora vanno dal cervo, gli spiegano, e anche il cervo stava per finirgli la cassa integrazione e accetta, così vanno anche da un capriolo, che accetta anche lui, poi trovano un serpente, una mucca, un maiale, un tasso, una volpe, eccetera. Poi il contadino gli ha detto: adesso venite tutti a casa mia che io vado a Bologna, in Strada maggiore, a trovare uno di quei tipi che fanno finta di essere delle statue e gli chiedo se viene a insegnarvi. E così aveva fatto. E anche l’uomo statua gli aveva chiesto: quanto si prende?
400 euro più vitto e alloggio.
va bene.
Così dopo un mese era tutto pronto, e se passavi in macchina dalla Porrettana e guardavi ti sembrava che nel campo ci fosse un cinghiale di gesso, e una mucca di gesso, e una volpe di gesso e un cervo di gesso e così via, e invece erano tutti animali vivi che stavano fermissimi, respiravano pianissimo e avevano imparato a resistere anche al prurito per ore, si grattavano soltanto di notte, quando andavano a dormire a casa dal contadino, che anche lui stava tutto il giorno nel campo a fare finta di esser di gesso.
Soltanto che un giorno vicino a quel prato è passato un lupo, è arrivato lì vicino e un bel momento ha detto: siete tutti animali di gesso? E loro gli hanno detto: no, siamo tutti animali veri, però abbiamo fatto un corso e facciamo finta di esser di gesso.
E allora il contadino, che già da giorni pensava che un lupo ci mancava proprio gli ha detto: ma tu lavori o sei disoccupato?
no, sono disoccupato.
vuoi venire a fare il lupo di gesso con noi?
quanto si prende?
200 euro al mese più vitto e alloggio. Però devi fare un corso per imparare.
va bene accetto.
Allora il lupo ha fatto il corso e ha imparato anche lui a far finta di essere un lupo di gesso e il contadino l’aveva messo tra la mucca e il cinghiale. E il lupo stava fermissimo, respirava pianissimo, teneva sempre la coda ferma nello stesso posto
però a star sempre di fianco alla mucca gli veniva una fame bestiale, infatti se uno l’avesse guardato da vicino vedeva che dalla bocca gli scendeva un filino di saliva di continuo perché aveva sempre l’acquolina in bocca; e il lupo si diceva: vacca boia che fame, vacca boia che fame, bisogna che resista. E resisti un giorno, resisti due giorni, resisti tre giorni, però il quarto giorno ha iniziato a tremare per quattro secondi e poi è saltato addosso alla mucca e l’ha sbranata in un minuto. E il contadino di colpo ha smesso di fare il contadino di gesso, è andato lì e gli ha detto: tu sei licenziato, va' via. E il lupo diceva: ti prego, è stato un attimo di distrazione, ma non lo faccio più, non licenziarmi, ti prego. Ma il contadino gli ha detto: va' via, e non farti più vedere. E allora il lupo, che piangeva fortissimo, se n’è andato.
E nel frattempo la gente che passava in macchina sulla Porrettana aveva visto che si muovevano e si era detta: allora non sono di gesso, son vivi e fan finta di esser di gesso, e qualcuno era uscito di strada e era morto nell’incidente.
Poi però il contadino è andato a cercare una nuova mucca, l’ha assunta, le ha fatto fare il corso e dopo un mese era tutto di nuovo perfetto, con tutti gli animali che facevano finta di esser di gesso. E al contadino era passata la rabbia, era di nuovo contento. E infatti dopo un mese ripassa di lì il lupo, che era diventato molto magro perché non aveva trovato più da lavorare, e va dal contadino e gli dice: ti prego, riassumimi, ti giuro che non mangio più nessuna mucca.
Allora il contadino, che era buono e gli era passata la rabbia, decide di riassumere il lupo e stavolta lo mette in mezzo tra la volpe e il cinghiale, il lupo voleva essere bravissimo, e stava fermissimo a fare il lupo di gesso. E il contadino il primo giorno lo teneva d’occhio, e guardava se per caso gli scendeva dalla bocca un filino di bava, ma il lupo era bravissimo. Però, passa due giorni, passa tre giorni, a un certo punto al lupo gli è tornata fame, e diceva che fame che c’ho, devo resistere, devo resistere, e resisti un giorno, resisti un altro giorno, al decimo giorno il lupo ha detto: che fame, non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la faccio più, e ha sbranato il cinghiale. E il contadino gli ha detto: ti licenzio, questa volta ti licenzio per sempre.
Poi il giorno dopo ha comprato un lupo di gesso, che era proprio una statua. E il lupo vero, quando ha visto che il contadino aveva comprato un lupo di gesso, si è buttato giù da una rupe e è morto.
Giovanni Maccari
Mentre era solo in casa e lavorava al computer davanti alla finestra, il signor Gedeone alzò lo sguardo e vide che sul tetto di fronte c’era un pappagallo del genere “inseparabile” quasi uguale a quello che aveva perso lui.
«Guarda un po’» disse fra sé e sé. «Dopo un sacco di tempo è tornato il pappagallo».
Era strano però, perché questo era alquanto giallognolo mentre il suo vecchio pappagallo era verde con delle macchie arancioni sulla guance, e soprattutto portava un bizzarro collare elisabettiano fatto col foglio di una radiografia, che questo non aveva.
Gedeone si mise a riflettere e gli venne in mente che fin dalla mattina gli era sembrato di sentir cantare, ma si era sempre detto che erano i pappagalli della vicina.
La vicina aveva due pappagalli che teneva in gabbia nella terrazza di fronte, dall’altra parte del palazzo, ma Gedeone si ricordava bene l’abilità dei pappa nell’emettere suoni penetranti e quindi non aveva insistito nelle indagini, anche se si guardava intorno e si diceva: «Eppure sembra proprio qui».
E infatti eccolo sul tetto di fronte. Anche il suo pappagallo era solito svolazzare sul tetto e piazzarsi sul vertice, e lì posare con aria spavalda, scarruffarsi le penne e ogni tanto pronunciare qualche schiocco all’indirizzo del mondo circostante.
Il signor Gedeone a quei tempi aveva in casa un solo gatto, per di più molto anziano e malmesso, che gli aveva lasciato una sua amica e che per via dell’età non ci vedeva quasi niente.
Di conseguenza il pappa spadroneggiava dappertutto, sempre fuori dalla gabbia. Dominava la stanza dallo stipite della porta, passeggiava fischiettando lungo gli scaffali della libreria, andava a posarsi sulla spalla di Gedeone e gli fischiava all’orecchio qualche comando incomprensibile. Soprattutto però gli piaceva stare in terra e in modo particolare stare in mezzo ai piedi quando il signor Gedeone era seduto, perché così poteva becchettare la punta gommata delle stringhe e sfilacciare la punta in tanti fili disordinati, con cui poi litigava con grande accanimento. Era una fissazione incontenibile, e a causa di questa debolezza una volta è stato incauto e inaspettatamente il gatto l’ha attaccato.
Quella cariatide di gatto che sembrava più morto che vivo. Ma dei gatti non c’è mai da fidarsi, hanno una pazienza micidiale. E così questo era lì che lo puntava sotto il tavolo da chissà quanto tempo, immobile come un coccodrillo, e all’improvviso gli ha allungato una zampata veloce e lentissima, con uno strano effetto ottico. Era lentissima per via della vecchiaia del gatto e perché sotto quel gesto si vedeva la rapidità soprannaturale che doveva aver avuto da giovane. Ma era anche veloce perché comunque ha toccato di striscio il pappagallo, sopra un’ala, procurandogli una leggera escoriazione.
Probabilmente tutti i pappagalli del genere inseparabile hanno il problema di essere testardi.
Il fatto che fin dall’inizio della loro evoluzione hanno sbucciato semi e scoperchiato le scorze dei frutti tropicali deve avergli trasmesso l’istinto di accanirsi. Il pappagallo del signor Gedeone non faceva eccezione a questa regola. Ha iniziato a beccarsi sull’escoriazione e non è stato possibile convincerlo a smetterla con nessun sistema. Insisteva a beccarsi e i muri si riempivano di piccoli schizzi di sangue, soprattutto dove stava la gabbia. Il pappagallo infatti non voleva assolutamente stare in gabbia, ma spesso però ci stava sopra in posizione di controllo, e si arrabbiava come un’aquila quando il signor Gedeone lo provocava con la penna – questo perché gli inseparabili sono come si dice “territoriali”.
In ogni caso a lungo andare il signor Gedeone ha dovuto portarlo in una clinica specializzata per animali esotici. C’era un dottore giovane e simpatico che ha preso dalla gabbia il pappagallo, gli ha stirato l’aluccia per guardarla, senza offendersi se il pappa cercava di tirargli delle gran beccate, e poi ha detto che era meglio tenerlo per un giorno sotto osservazione. Il giorno dopo Gedeone è tornato e il dottore gli ha detto che di fisico non c’era niente, ma che il pappa era caduto vittima di una sindrome compulsiva tipica dei pappagalli inseparabili in condizioni di stress, ovvero in cattività. Non avrebbe mai smesso di beccarsi e si sarebbe scavato tutta l’ala fino a quando lo stress dovuto al trauma non gli fosse passato. Ma la scienza veterinaria non ha ancora elaborato
un metodo psicoterapeutico adatto per i pappagalli, così come tuttora non esistono farmaci provatamente efficaci per l’ansia pappagallesca. Così l’unico metodo era impedirgli di beccarsi con un sistema meccanico, in attesa che la sindrome si riassorbisse da sola. Il dottore ha ritagliato con grande abilità una porzione rotonda dal foglio di una radiografia, l’ha divisa nel mezzo e l’ha applicata delicatamente intorno al collo del pappagallo. Poi ha fermato i due lembi con un punto di spillatrice e ha detto: «Ecco, gli abbiamo fatto un bel collare elisabettiano».
Dopo di che ha consegnato a Gedeone la fattura dove c’erano il ricovero, l’osservazione, la diagnosi, il presidio ortopedico (cioè il collare elisabettiano), per un totale di 485 euro.
Gedeone ha pagato con una punta di dispetto ma anche una specie di ironico divertimento per la stupidità sua, del dottore e in fondo anche del pappagallo, che aveva un’aria un po’ scema con quel collare grigio intorno al collo.
Tuttavia, malgrado questa lesione della sua dignità, il pappagallo non aveva per nulla abbassato il livello delle proprie ambizioni né ridimensionato il concetto che aveva di sé. Si piaceva. Ogni tanto si incontrava in uno specchio e restava a guardarsi con soddisfazione anche se sempre col sospetto di non essere lui. Poteva essere un intruso che gli somigliava molto, anche lui col collare elisabettiano indossato allo scopo di ingannarlo.
Era chiaro che riteneva di essere il padrone o forse il governatore di quel regno esotico composto dalla casa del signor Gedeone con tutti i suoi annessi, il computer, la gabbia, il gatto, i tavolini vari e le stringhe delle scarpe del signor Gedeone, con cui continuava a litigare con la stessa decisione. Ogni tanto per cambiare paesaggio usciva dal proprio regno e se ne andava nel mondo oltre frontiera, ossia sul tetto di fronte, svolazzando goffamente per via del collare, si posava sul vertice e se ne stava impettito proprio lì dove ora Gedeone vedeva quest’altro pappagallo. Lanciava qualche strilletto di minaccia o camminava sculettando e mandando un piede avanti all’altro come le indossatrici alle sfilate.
Una volta è partito per una di queste missioni e non ha fatto ritorno. Il signor Gedeone ha scosso come al solito il barattolo di vetro in cui teneva i semi, ha fischiato, ha messo fuori dei cartelli con la fotografia del pappa e la preghiera di chiamarlo se qualcuno lo avvistava, ma non c’è stato verso. Sono passati i giorni, le settimane e i mesi senza che il pappagallo desse segni di vita. Il gatto anziano a un certo punto è morto e dopo qualche tempo sono arrivati due gattini spettacolari e vivaci come tutti i cuccioli del mondo.
E dopo tutto questo ecco che il pappa era tornato, si diceva Gedeone. Ma guardava l'esemplare giallognolo e senza il collare e rispondeva che no, non poteva essere lui.
Oppure forse era lui, magari in questo periodo era guarito, forse un’altra famiglia l’aveva trovato e l’aveva trattato con dolcezza in modo da fargli passare la sindrome compulsiva di beccarsi l’ala. E in seguito era scappato di nuovo, risanato e col piumaggio diverso per via di una muta naturale, e era tornato a casa sua, cioè il suo regno, di cui in quell’intervallo a titolo provvisorio il signor Gedeone aveva tenuto la reggenza. Non era molto probabile però sarebbe stato bello. Il signor Gedeone chiuse il file a cui stava lavorando e poi si alzò con cautela per andare a chiamarlo, ma quando alzò lo sguardo un’altra volta vide che il pappagallo era volato via.
Gianfranco Mammi
Non tutti i dinosauri erano smisurati e orribili a vedersi come quelli dei film d’avventura o della maggior parte dei musei; infatti, come esistono pesci di tutte le forme, colori e dimensioni, anche le più strane e divertenti, così esistevano pure dinosauri simpatici e gentili.
Tra questi animali uno dei più grandi era il dizionariosauro; mangiava soltanto erba, quintali e quintali di erba fresca ogni giorno, che in poche ore si trasformava in cellulosa e poi in pagine. Era capace di crescere fino a venti pagine al giorno, e quando diventava troppo grosso per volare si divideva in due volumi di uguali dimensioni.
Invece uno dei più piccoli e divertenti era il cravattosauro, un animaletto anfibio che viveva lungo le rive dei fiumi e si cibava di alghe minuscole, che davano i colori più diversi alla sua pelle; dopo aver passato la giornata a ingozzarsi di alghe multicolori si appisolava raggomitolandosi nel suo nido, in posizione annodata; una famiglia di cravattosauri addormentati era davvero un bello spettacolo!
Un tipo speciale era il dinosauro-pensatore, che assomigliava un po’ a un gatto, ma a un gatto molto lento e pigro. Se ne stava quasi tutto il tempo sdraiato sulla cima di una collinetta, all’ombra di un cespuglio, e mentre fingeva di ammirare il paesaggio in realtà pensava alla probabile estinzione dei dinosauri.
Per sopravvivere gli bastavano due moscerini al giorno e l’unico fastidio che dava era che gli altri dinosauri ci inciampavano sopra.
Ma se volevate vedere qualcosa di veramente bello, allora bisognava andare nelle paludi dove vivevano i dinosauri-farfalla; immaginatevi un farfallone con le ali grandi come tavolini da ping-pong, piene dei colori più sgargianti. C’erano sempre parecchi stormi levati in volo, e il cielo sembrava un enorme arcobaleno in continuo movimento.
Un animale strano era il coperchiosauro, che si nutriva del nettare dei fiori dell’albero-bidone; questi fiori erano come delle grandi pignatte a cui il coperchiosauro aderiva perfettamente, riuscendo così a estrarre fino a dieci chili di nettare per volta.
Un cibo molto diverso era quello che mangiava tutti i giorni il dinosauro-cuscino: andava in giro dal mattino alla sera raccattando le piume e le penne che perdevano i più diversi animali; per lui queste cose eran più buone della cioccolata e si rimpinzava fin quasi a scoppiare. Quando era tutto gonfio di piume si addormentava di colpo sotto il primo albero che trovava; allora gli altri dinosauri ne approfittavano per dormirgli sopra, ma lui era contento perché con il loro massaggio gli facilitavano la digestione.
Lo zerbinosauro era un tipo calmo, di poco movimento: di solito si metteva bello comodo all’ingresso di una caverna abitata da un dinosauro-zia, che come tutte le zie teneva moltissimo alla pulizia della casa e costringeva i visitatori a pulirsi bene i piedi prima di entrare;
così il furbo zerbinosauro si nutriva dei residui di cibo che restavano incagliati sotto i piedi degli altri dinosauri. Era una vita comoda, ma un po’ noiosa, così lo zerbinosauro ogni tanto chiamava qualche amico per stare in compagnia; capitava allora di vedere tre o quattro zerbini sistemati artisticamente davanti all’ingresso di una sola caverna.
Il divanosauro era senza dubbio il più sedentario di tutti e di solito moriva nello stesso posto in cui era nato, o al massimo un paio di metri più in là. Pareva ricoperto di un tessuto decorato a foglioline, che invece erano tante piccole bocche. Quando un animale qualsiasi andava a riposarsi su un divanosauro, questo gli mangiava tutti i parassiti che gli infestavano la pelle.
A volte faceva indigestione di parassiti e allora dava ai suoi clienti l’indirizzo di un altro divanosauro, di solito un suo amico o parente, meno fortunato di lui.
Un altro animale molto utile era il dinosauro-portacenere; in quei tempi lontanissimi i vulcani erano molto più numerosi e più attivi di oggi, e non si sapeva mai dove mettere tutta la roba che eruttavano: lava, lapilli, cenere, eccetera. Per fortuna esistevano questi animali che appena sentivano odor di bruciato accorrevano a migliaia a mangiarsi tutto quanto.
Lasciavano solo una certa quantità di lava, perché quella serviva al vulcano per crescere in alto e in largo; ogni vulcano voleva diventare più importante di tutti gli altri.
Un animale che invece di pulire sporcava, ma senza volere, era il dinosauro-arlecchino. Si chiamava così non per il colore della sua pelle, che anzi era completamente rosa, bensì per una caratteristica molto strana: le erbe, felci e foglie che mangiava, nel suo stomaco si trasformavano in coriandoli e tutte le volte che starnutiva pareva che fosse passato un carnevale. Era un lontano parente del dizionariosauro, ma molto più allegro.
Un mattacchione che non stava mai fermo era il deliriosauro: giorno e notte ballava e cantava, in gruppi più o meno numerosi, finché in capo a una settimana non cadeva a terra, completamente esausto.
Ma bastavano due o tre ore di riposo e di nuovo era in piena forma – non si sa come facesse. Era un mistero della natura, ma ci piace concludere questo primo, incompleto catalogo con un’ipotesi di fantasia: forse il deliriosauro si nutriva di gioia di vivere.
Jacopo Narros
C'è un paese che si chiama Goffredo dove i bambini che vanno a scuola possono trasformare come piace a loro l'aula scolastica. I maestri non possono dire niente, perché a Goffredo i maestri non entrano mai in aula, fanno lezione ad altri adulti in corridoio, o sulle scale antincendio. Un bambino di Goffredo che si chiama Goffredo ha reso noti i tre progetti di trasformazione dell'aula scolastica più diffusi, li ha scritti con una penna di canarino sulla carta di una cicca, con una scrittura sottile sottile che a volte sembra quasi una piccola fila di formiche che va a zig zag. Eccoli qui, riassunti.
Trasformare l'aula in una nave
Si tappano bene con briciole, carta e saliva tutti i buchi, gli spifferi di porte e finestre, senza dimenticare le serrature e le crepe nei muri. Poi un bambino comanda una gru, oppure un elicottero, afferra l'aula e la getta in mare. Le finestre fungono da oblò, unendo i righelli con la colla stick si può costruire un ottimo timone. I bambini vanno a pesca di acciughe per i mari, e chi si ribella perché soffre a stare nell'aula-barca viene lasciato su un'isola deserta con un libro di matematica. A volte capita di incontrare tra le onde altre aule-barca, capitanate da bambini di Goffredo che fanno arrembaggi lanciando caramelle smangiucchiate e scolorine scariche.
Trasformare l'aula in una piscina
I bambini fanno come quando trasformano l'aula in una barca, cioè chiudono tutti i buchi e le crepe. Poi però invece che spostare l'aula, la riempiono di acqua. Un bambino distrae il bidello con un panino scaduto, e un altro collega un lungo tubo al rubinetto del bagno, in modo che l'acqua riempia tutta l'aula. Siccome il tempo da aspettare perché l'aula sia piena è lungo, si può misurare la profondità dell'acqua con un righello, ma anche con delle matite. Si possono fare barchette vaganti con i fogli del registro di classe, allevare rane, formare isolotti con i libri di italiano (forse meglio di geografia).
Poi quando c'è abbastanza acqua iniziano le gare di tuffi, e ci si può lanciare da scogli artificiali fatti con sedie e cattedre. I più avventurieri tra i bambini fanno i sommozzatori, e nuotano in fondo verso il pavimento smeraldino dell'aula, e guardano gli animali. Capita infatti di trovare pezzettini di cibo e vecchie gomme, ma anche dei pesci, usciti dal rubinetto del bagno, e topi che hanno sviluppato le branchie, e che salgono in superficie a rubare una rotella di liquirizia a un bambino distratto e poi si rituffano nell'abisso dell'aula piscina.
Trasformare l'aula in uno zoo
Ogni bambino di Goffredo è obbligato da un bambino eletto presidente a portare a scuola un animale. Sono validi tutti gli animali. Alcuni bambini portano a scuola il gatto, il cane o il pesce rosso. Siccome però c'è il rischio che tutti portino un gatto o un cane, che sono più diffusi mettiamo dei gorilla, degli scimpanzè o delle giraffe, che sono invece gli animali che fa più piacere vedere in uno zoo, il bambino presidente decide che di gatti possono essercene al massimo tre e mezzo, di cani sette quinti, e di pesci rossi, che sono comunque piccoli e si possono mettere dappertutto, un massimo di cinque chili.
I bambini più scattanti e leggeri acchiappano le mosche e le portano in classe in bicchieri di plastica con sopra un piattino, o del cellophane, quelli che amano i ragni catturano quelli più pelosi. Il bambino presidente fa studiare su un libro speciale i richiami degli uccelli, in modo che gli altri bambini abbiano il compito a casa di fare i versi alla finestra per attirare gli uccelli che vogliono venire. I richiami si possono fare pure alla finestra della scuola, è stato deciso, ma con cautela e molta attenzione: infatti l'aula si riempirebbe subito di piccioni, che sono animali un po' ottusi e che pensano sempre di essere chiamati in causa.
Con questo metodo dei fischi, i bambini portano a scuola condor, poiane, aquile, cinciallegre verdi, fenici a pois e struzzi, tenuti al guinzaglio. Il cestino può venire svuotato e ribaltato, trasformandosi in una gabbia da cocorita, l'appendiabiti può essere il trespolo del pappagallo. Nei cassetti della cattedra si mettono i ragni, e le mosche in sacchetti di plastica appesi al soffitto in modo che facciano uno strano ronzio. Cani e gatti correranno per l'aula come in un'arena, i pesciolini li terranno in bocca dei bambini che l'avranno prima riempita di acqua dolce o salata. Per i leoni ora è meglio non dire, ma il presidente bambino ha scritto sulla lavagna una sua idea dettagliata in proposito.
con un Frasario per un uso corretto
del gergo scolastico
Daniele Zinni
Nella nostra scuola c’è stato da poco il primo giro di verifiche – telestoria, turboitaliano, astroingegneria finmeccanica – ed è successa una cosa che non si aspettava nessuno, cioè che Tito ha schioffato pesante. Quattro insufficienze su quattro. È strano perché Tito fino all’anno scorso andava bene; poteva capitare che fosse impreparato, una volta ogni tanto, ma una ramanzina come quella che gli ha fatto il robopreside non l’aveva ancora mai sentita.
In effetti non l’ha sentita neppure stavolta, perché si è annoiato dopo sedici secondi e distratto dopo diciannove, comunque il rimprovero è stato forte e chiaro, chiaro e tondo, a tutto tondo: “Uno schioffo di queste dimensioni”, ha detto il robopreside, che è programmato per usare le espressioni che usiamo noi, “Uno schioffo di queste dimensioni non abbia giammai a ripetersi, salvo che tu non voglia fare il pesce. Sei in errore, Tito, se nutri la convinzione di essere il caromello di taluna o talaltra maestra”. (Il robopreside è programmato strano, e le parole di noi alunni le infila in certe frasi che boh).
Tito non pensa di essere il caromello di nessuno, né gli fa piacere l’idea di fare il pesce e dover ripetere l’anno scolastico – il problema è che in questi mesi davvero non gli riesce di concentrarsi. Persino durante le lezioni di invenzionistica, quando siamo tutti intorno alla cattedra per seguire gli esperimenti, Tito si annoia e conta le mosche sul soffitto, o immagina Marielvira completamente calva, o fa squillare il cellulare di Alfonsergio che dimentica sempre di togliere la suoneria. Se poi la maestra gli fa una domanda, Tito casca dalle nuvole e si imbarazza, perché non gli piace fare la figura dello sbrachino.
Per fortuna, è un tipo sveglio e sa che in qualche modo dovrà recuperare la concentrazione. Gli è andata di lusso: mentre cercava un’idea, ha trovato questo racconto e ha letto come avrebbe dovuto fare per cavarsela. Un vantaggio sfacciato, conoscere in anticipo i racconti che ci riguardano, non è vero? Del resto, le idee che Tito ha trovato in questa storia sono idee sue, quindi non le ha copiate: le ha ricordate, solo che le ha ricordate dal futuro anziché dal passato. Se non si è capito, la nostra è una scuola per bambini inventori, e così Tito ha pensato di inventare dei marchingegni che lo costringano a concentrarsi.
Per prima cosa ha costruito un paio di occhiali speciali, a forma di imbuto, con cui restringere il campo visivo e vedere solo la maestra o la cyberlavagna. Ha funzionato per quasi dieci minuti, fino a quando Roccorazio non lo ha fatto voltare per chiedergli una gomma: Tito si è distratto, si è messo a guardare fuori dalla finestra, e con quei paraocchi addosso si è completamente dimenticato di essere in classe. Allora ha montato ai lati degli occhiali due impalcature con cui bloccare le spalle e il bacino, in modo da non potersi più girare: molto scomodo, ma ha funzionato per una intera lezione di molecologia.
Peccato che, durante l’ora dopo, Tito abbia ricominciato ad annoiarsi e abbia passato tutto il tempo a disegnare mentre fingeva di prendere appunti. Ma non si è perso d’animo: il giorno successivo è andato a scuola col computer, anziché coi quaderni, e ha installato un chip per bloccare tutti i programmi tranne quello di scrittura (avrebbe potuto portarsi una semplice macchina da scrivere, ma non ci ha pensato).
Purtroppo, dopo una settimana passata a guardare lo schermo, Tito ha cominciato ad avere male agli occhi; poi anche mal di schiena, per via delle impalcature che aveva addosso; e mal di testa, perché aveva inventato due microamplificatori auricolari che gli facevano sentire solo la maestra, ma a volume altissimo.
Per guarire dai suoi acciacchi, insomma, ha dovuto lasciar perdere la tecnologia. Il suo piano ha schioffato. Ma come è potuto succedere, se aveva già letto questa storia? Ve l’ho detto, Tito non riesce a concentrarsi, e infatti il racconto non lo ha letto né tutto né bene. Si è fermato diverse righe fa, è saltato al finale che dice “Un talento mica male!”, e ha creduto che tutto sarebbe filato liscio.
Intanto si avvicinano il secondo giro di verifiche e il temuto colloquio tra insegnanti e genitori. Negli ultimi giorni, però, è successo qualcosa di imprevedibile: se prima Tito si annoiava delle lezioni perché gli sembravano meno interessanti della realtà – comprese le realtà di fantasia in cui Marielvira non ha i capelli e il bidello Caternesto ha la coda – adesso Tito si annoia delle sue stesse distrazioni.
La realtà che lo circonda non cambia spesso, l’immaginazione tende a percorrere sempre le stesse strade, e il millesimo sogno a occhi aperti in cui esplora le galassie lo entusiasma più o meno come rifare il letto. Senza volerlo, Tito si distrae dalle sue distrazioni, si dimentica di stare vagando col pensiero e si ritrova ad ascoltare le maestre; per ingannare il tempo prende appunti, fa domande, si offre volontario per le interrogazioni; passa pomeriggi interi a studiare.
Alle maestre non interessa se Tito studia per passione o per noia: è sufficiente che lo faccia. Il robopreside si è congratulato con lui: “I tuoi risultati recenti”, gli ha detto, “sono alquanto una strabomba, se proseguirai su questa china non c’è rischio che tu – pluff!” – e ha mimato un pesce.
Sono contento per Tito, ma non sono sicuro che abbia risolto il suo problema di concentrazione; sembra piuttosto che ne abbia fatto una virtù e un talento: nessuno è bravo a distrarsi come lui. L’altro giorno, per esempio, ha seguito quattro ore di lezioni senza pensare ad altro, ma proprio quando si è accorto di esser stato così bravo ha cominciato a immaginare medaglie, coppe, monumenti in suo onore… La maestra gli ha fatto una domanda, e lui è rimasto lì col muso dello sbrachino. Un talento mica male!
[segue il Frasario per un uso corretto del gergo scolastico]
- Se non mi chiedi scusa, la nostra amicizia "schioffa" qui.
- A pallavolo sono uno "schioffo" senza rimedio, l’altro ieri mi sono impigliato nella rete.
- Il mio compagno di banco "ha fatto il pesce" così tante volte che ha già la barba.
- Nessuno sa bene a che pesce ci si riferisca, con l’espressione “fare il pesce”: un pesce di mare? Di fiume? Di lago? Non lo sanno nemmeno gli alunni che hanno fatto il pesce. Magari hanno fatto il pesce proprio perché non lo sapevano.
- Ogni scarrafone è "caromello" a mamma sua.
- A casa la trattano da "caromella" e lei si è convinta di essere più brava degli altri, poi non sa nemmeno calcolare a mente la radice quadrata di 34.583.098,94.
- Fai attenzione a guidare in modo così "sbrachino" o finirai per cadere con la bici nel fosso.
- Le persone "sbrachine" in alcuni casi sono molto creative, ma più spesso sono sbrachine e basta.
- Il giorno di Natale non era stata troppo contenta; col senno di poi, si accorse che quei regali erano proprio delle "strabombe".
- A voi non danno fastidio quelli che fanno sembrare tutto una "strabomba", anche le cose più normali del mondo?