Insegnanti e regole
Il nostro tempo richiede soggettività pensante e non sottomissione alle regole. La crisi può suscitare smarrimento, ma può anche essere vista come un allentamento di vincoli non necessari, un’occasione di cui approfittare per riprendersi la propria soggettività di insegnanti che sanno insegnare. Un colloquio con Vita Cosentino, insegnante, scrittrice e studiosa del pensiero delle donne.
Vita Cosentino, scrittrice e studiosa del pensiero delle donne, ha insegnato a lungo nelle scuole di periferia di Milano. Ha recentemente pubblicato un nuovo volume in cui racconta la sua esperienza: la passione per il suo lavoro, il cammino fatto insieme ad altre e altri insegnanti, alunne e alunni per migliorare il mondo a partire dalla scuola. Non sono solo parole: dal testo, insieme a quella dell'autrice, emerge l'esperienza di tante donne e uomini di scuola che hanno creduto, negli anni Ottanta, nella pedagogia della differenza, per creare in seguito il movimento di autoriforma della scuola, una rete molto attiva nel pubblicare articoli e libri collettivi, con idee nate nell'incontro con studenti e studentesse. "C'è sempre qualcosa che si può fare, lì dove si vive, invece di arrendersi o di diventare acquiescenti", dice la quarta di coperta del volume. Intervistiamo Vita per saperne di più.
Il suo ultimo libro ha per filo rosso la "pedagogia della differenza": di che cosa si tratta?
Il filo rosso è la presa di coscienza della differenza, cioè assumere consapevolmente il proprio essere una donna o un uomo. Questo è un passo che si fa per sé e se ne riceve in regalo uno sguardo più intelligente sul mondo: vedere che da sempre ci sono uomini e donne, vedere che sia gli uni che le altre sono presenze significative, proprio per la differenza sessuale con tutto quello che ciascuna, ciascuno porta di sé nel lavoro comune. Sul finire degli anni ’80, quelle prime esperienze di pedagogia della differenza fatte da alcune insegnanti, io stessa, sono state secondo me importantissime, perché ci siamo messe a pensare “in proprio”, perché ci siamo costituite come soggettività femminile parlante e pensante. Io, per esempio, che ho sempre insegnato in scuole medie di periferia piene di problemi, ricordo la prima cosa che mi balzò agli occhi: tutto quello che leggevo sul leader negativo, sulla formazione dei gruppi, in realtà mi parlava del ragazzino violento che picchiava i compagni e rubava le merende. E le ragazzine chiuse in un silenzio impenetrabile? Vederle fu un grande stimolo a inventare dei modi per avvicinarle, a cambiare la mia impostazione mentale e il mio modo di fare scuola.
Quello è stato l’inizio, ma c’è un seguito. In Scuola. Sembra ieri, è già domani è raccontato il mio percorso che comincia con la pedagogia della differenza e va avanti con la creazione dell’autoriforma della scuola, un movimento di donne e uomini che pensano insieme con uno scambio libero legato all’esperienza. Penso che le pratiche e le riflessioni che ne sono seguite, possano essere utili a chi insegna oggi.
Senz’altro lo sguardo della differenza ha spostato la nostra l’attenzione: dai programmi da svolgere a ogni costo fornendo sapere a piccole dosi, agli esseri umani in carne ed ossa con cui entrare in relazione, da aiutare a fiorire nel diventare se stessi e se stesse. A quel punto si può insegnare che è bello essere donna, è bello essere uomo, è bello mettersi in relazione come differenti.
Sempre di più si parla del nostro mondo e della scuola utilizzando la parola "crisi". Se crisi c'è, nella scuola, in che rapporto sta con quella che investe la società e le istituzioni? E che cosa può fare la scuola per salvarsi, salvare e formare nuovi cittadini che sappiano vivere meglio nel mondo, anche cambiandolo per il meglio?
La crisi della scuola c’è e non riguarda solo l’Italia. Tutti i sistemi scolastici occidentali sono in una crisi strutturale che riguarda il suo stesso assetto: le relazioni, i linguaggi, l’approccio al sapere e le forme della sua trasmissione. Per esempio la vecchia idea per cui attraverso il rispetto delle regole scolastiche si prepara e si forma “il cittadino” non funziona più in un mondo in cui la globalizzazione ha distrutto le società così come le conoscevamo. Oggi domina la precarietà e l’incertezza e viviamo in società sempre più multiculturali che ci chiedono atteggiamenti nuovi.
L’alternativa non è tra un’educazione rigida e una permissiva, ma ripensare l’intero assetto delle relazioni scolastiche. Il nostro tempo richiede soggettività pensante e non sottomissione alle regole. La crisi può suscitare smarrimento, ma può anche essere vista come un allentamento di vincoli non necessari, quindi un’occasione di cui approfittare per riprendersi la propria soggettività di insegnanti che sanno insegnare. In Italia la scuola ha dei precedenti illustri, come Barbiana e L’erba voglio, ma negli ultimi decenni le portatrici di vere novità sono le donne e questo per un fatto preciso: nella seconda metà del Novecento per la prima volta sono andate in massa a scuola e molte ci sono tornate come insegnanti. La scuola italiana è la più femminilizzata d’Europa. Proprio per questo il nostro libro fin dal titolo scommette sul fatto che le pratiche soggettive pensate dal femminismo e riprese nelle scuole prima da donne e poi anche da uomini possano essere un laboratorio importante per la scuola di domani.
Lei ha riservato sempre grande attenzione al linguaggio, come testimone di storture e pregiudizi attivi nella società ma anche veicolo di innovazioni e nuovi sguardi possibili. In che modo consiglierebbe di fare educazione linguistica a scuola per sconfiggere stereotipi e pregiudizi?
È vero, per il linguaggio bisogna avere una grande attenzione. Prendiamo in esame la parola pregiudizio. È in uso da moltissimo tempo. Mi viene subito in mente il famoso romanzo di Jane Austin Orgoglio e pregiudizio. Anche solo guardando a quei personaggi così amati da tutte noi, è facile accorgersi che i pregiudizi fanno parte integrante del nostro modo di pensare. Questo non è cattivo in sé. Nasciamo in una cultura, ne assorbiamo le forme di base, poi assimiliamo gli atteggiamenti dell’ambiente sociale in cui viviamo. Ma capita che non tutto va liscio, i conti non tornano e lì si tratta di vedere che cosa c’è in ballo: sono pregiudizi o è la nostra lettura dei fatti che deve cambiare?
Racconto un episodio che mostra come ci si può sbagliare. Tanti anni fa nella mia classe era arrivato ad anno iniziato un ragazzino sudamenricano. Qualche giorno dopo in sala cinema mi accorgo che nessuno – soprattutto le ragazze – voleva sedere accanto a lui. Subito ho pensato a un pregiudizio razzista. È così facile etichettare i comportamenti altrui! Stavo per aprire una discussione in classe su questo argomento, quando mi ha fermata una mezza parola di una mia alunna. Il problema non era il suo essere straniero, ma il fatto che cercava di toccare le compagne. Capite bene che la discussione ha preso un andamento tutto diverso.
Anche con quelli che vengono definiti “stereotipi” è meglio fare attenzione, soprattutto con le creature piccole. La mia nipotina, a tre anni, in casa si voleva sempre vestire da principessa e si riempiva delle collane della mamma. Mia nipote era un po’ allibita, essendo una giovane donna molto dinamica, ma la lasciava fare. Ora la bimba ha cinque anni e stravede per il disegno. Questo per dire che le bimbe e i bimbi attraversano fasi diverse e devono poter esplorare le situazioni, immedesimarsi, giocare con i personaggi con una certa libertà. Senza censure preventive. Basta che ci sia dialogo con la mamma o il papà o con altre figure di riferimento.
Nell’insegnare a scrivere e a parlare, soprattutto con adolescenti, la cosa importante è non limitarsi alle tecniche e alla grammatica, ma accompagnare la libera espressione di sé. Gli esseri umani sono “animali simbolici”, hanno come bisogno primario il linguaggio. L’insegnante può favorire l’esserci nella lingua, il bisogno, come dice Annamaria Ortese, di “dare una forma propria, quindi nuova, a ciò che si sente”.
Se una ragazza o un ragazzo è in grado di trovare parole per dire di sé, dei propri desideri e dei propri disagi, se è in grado di contrattare parlando con gli altri e le altre, allora può attraversare stereotipi e pregiudizi e ha meno bisogno di rifugi difensivi o di troppe maschere.
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