MATTEO COLOMBO

"Magari disturbiamo"

il racconto che ha vinto
il laboratorio di scrittura
del Corriere della Sera


Tutto era normale fino a quando non era entrato qualcuno a dire che era morto Orfeo Pasotti. In quel momento l’intero bar aveva staccato lo sguardo dalla finale con la Francia e si era voltato verso l’entrata. Io no. Ero rimasto immobile, come se niente fosse come se sapessi che sarebbe finita ai rigori.
«Hai sentito?»
«Biagio, è morto Orfeo.»
Avevano iniziato a guardarmi. Si aspettavano una mia reazione. Qualcosa di teatrale. Io, però, ero con gli occhi dentro la partita e non volevo sapere altro.
Mi ero alzato dalla sedia solo dopo che anche Grosso aveva tirato il suo calcio di rigore.
«Adesso devi andare,» mi aveva detto il barista «ti aspettano.»
«Ettore, devo andare al circo» gli avevo risposto, e avevo controllato se la lettera ci fosse ancora.


Dieci anni ruota a ruota. Io davanti e lui dietro. Perché, tra i due, il campione era Orfeo. Era la mia ombra fino a cento, novanta, ottanta, settanta, sessanta, cinquanta, quaranta, trenta, venti metri dall’arrivo. Poi mi facevo da parte e lui vinceva. Un velocista puro, Orfeo Pasotti, uno sprinter cristallino. Il più veloce del mondo in quell’ultimo sputo di corsa nel quale sprigionava, dirompente, l’energia accumulata per chilometri e chilometri, standomi appiccicato, sfruttando l’aria leggera che gli tagliavo senza chiedere nulla.
Uno che la gente, quando passavamo in mezzo ai paesi, veniva ad ammirare lasciando a metà ciò che stava facendo: la pastasciutta, una partita a carte, il letto ancora caldo e la faccia esterrefatta di una donna svestita che si sentiva crollare il mondo addosso. Giungevano in ordine sparso, fuori dalla case, dalla chiese, dalle fabbriche, dalle osterie. E tutti insieme formavano una fiumana bella da passarci in mezzo: grida che ci coprivano, scommesse, cartelli alzati, scritti con la vernice, in stampatello.
«Non è la stessa cosa quando corre Orfeo.»



Ma dicevano anche: «Ne morirò, prima o poi ne morirò». Be’, questo lo dicevano le donne, innamorate di lui come di un attore di Cinecittà.
Si accalcavano, incollati ai bordi delle strade, sui fossi, pancia contro schiena. Mettevano i bambini davanti, li tenevano tra le gambe. Ci lanciavano secchiate d’acqua.
Orfeo, mentre era in gruppo, faceva di tutto. Era bello, lui. Salutava, mandava baci, si fermava a riempire la borraccia.
«La fontana...»
«Quale fontana, nonno?»
«La fontanella che sta giù al curvone, davanti alla Cascina della Pernice, in quella fontana si è fermato il Pasotti.»
I luoghi cambiavano nome al suo passaggio. I giornali lo sbattevano in prima pagina. Le ragazze di buona famiglia se lo immaginavano nel loro tinello. Venivano fin qui, al paese, da Milano, da Varese, da Genova, da Alessandria, per incontrarlo. Chiedevano a me dove abitasse. Se potessi accompagnarli.


«Bravo Biagio» mi dicevano. Ma quando Orfeo gli appariva davanti agli occhi, con i capelli impomatati, io non esistevo più. Esistevano soltanto i suoi trionfi di tappa al Giro e al Tour, con i brindisi sul palco.
«Biagio, come stai? Te la senti?» voleva sempre sapere alla partenza.
Se rispondevo di sì, faceva un cenno agli altri ragazzi della squadra e si partiva. Allora capivamo che quel giorno si partiva per vincere.
A fine corsa, invece, cambiava voce. Un tono riconoscente.
«Merito tuo.» E non aggiungeva nulla.
Poi, lungo il tragitto, si parlava d’altro. Di calcio. Di politica. Ma d’altro, se capite cosa voglio dire. Più o meno a tre chilometri dalla fine si faceva improvvisamente silenzio. Orfeo si curvava al massimo sul manubrio. Gli veniva fuori una vena, in mezzo alla fronte. I nostri si spostavano. Restavamo soli: io davanti e lui dietro. Attorno una compagine di corridori rivali. Si aumentava il ritmo. Stantuffavano tutti, sgomitavano, bestemmiavano, saltavano le catene, il fuggitivo veniva risucchiato dal grande animalone che buttava fuori fumo.



Non so se riesco a descriverlo. Bisogna esserci stati in quel casino. Più veloci, più veloci, più veloci. Indovinare il momento giusto per farsi da parte, per volerla perdere, io, la corsa. Per lasciare l’asfalto a lui. E la visuale sgombra.
Più veloci, più veloci, più veloci.
E lui faceva il vuoto. Quel metro, due metri, tre, quattro, cinque metri di vuoto. Quanto bastava per una vittoria in volata.
Nel senso che se non ci fosse stato l’arrivo, avrebbe spiccato il volo.


«È mancato all’affetto dei suoi cari il grande campione di ciclismo Orfeo Pasotti, di anni 65.»
Mi sono sempre chiesto chi l’ha inventata, la prima volta, la formula che si usa per gli annunci funebri. Roba da perderci la testa a scrivere un annuncio, a voler riassumere tutta una vita in quattro o cinque righe. E allora qualcuno, un benedetto giorno, un tipo delle pompe funebri, avrà deciso che forse era meglio così: un inizio uguale per tutti. La fantasia lasciata solo all’epitaffio.


Leggo il suo manifesto – il paese ne è tappezzato – e tengo stretta la sua lettera, qui, nella tasca della giacca, come il foglio di giornale che ci infilavamo sotto la maglia per non prendere aria. Me l’ha data quattro giorni fa. Era ancora in forze. A letto, ma in forze. Anche con le scatole dei medicinali attorno, le persiane chiuse, il pigiama puzzolente e l’odore di chiuso, aveva una bella luce sul volto. Pensavo che ce l’avrebbe fatta a tirare un po’ in là.
«Lo sai che siamo in finale?» si era voltato verso di me. «La vinciamo stavolta» disse con il vocione.
Riempiva le coperte, era enorme.
«Vado a vederla con gli altri, al bar» gli risposi.
«Se appena appena posso, ci vengo anch’io.»



Non che potesse morire in un altro modo Orfeo. La sera, la gente, per le strade, a urlare di gioia, con le bandiere tricolore, a fare i cori. Il giorno dopo, il suo funerale.
Non che potessero fare piano. Anzi, meglio così. Gli sarà sembrato di sentirli gridare ancora una volta al suo passaggio, sotto lo striscione dell’arrivo. «Forza Orfeo! Grande Italia! Campioni del mondo!» Oppure: «Ciao Orfeo. Anzi, addio».
Aveva guardato me e poi sua moglie. Lei aveva capito. Era uscita dalla camera, lasciandoci soli.
«Apri l’armadio» mi aveva ordinato.
Da capitano me lo aveva detto, come se volesse la borraccia o gli scarpini puliti.
«C’è una scatola con i giornali, la vedi?»
«Sì.»
«Sotto; lì, sotto i giornali, c’è una lettera.»
Frugai tra i ritagli rosa sbiaditi sottolineati macchiati.
«Sì.»
«Prendila. Mettila via.»
«Cos’è?»
«Mettila via.»
Fine. Aveva cambiato discorso. Mi aveva chiesto come Lippi li avrebbe fatti giocare.
«Credo che metterà Materazzi.»


«È una finale da pareggio, però vinciamo» aveva commentato.
«Li hai visti con la Germania?»
«Un tempo...»
Poi basta. Si era girato di nuovo verso il muro. Sembrava che si fosse assopito, d’un tratto. Allora ero andato alla porta per chiamare sua moglie.
«Vacci da solo» aveva aggiunto. E mi aveva detto ancora grazie.
«Ti aspetto al bar» gli avevo risposto io.


Non c’era un’anima in giro. Saranno state le due del pomeriggio. C’era il sole a picco. Le porte della chiesa spalancate. Un ragazzino con lo scooter.
Quando ero arrivato in mezzo alla piazza, avevo tirato fuori la lettera e l’avevo letta. Ero impaziente, non ce l’avrei fatta ad arrivare a casa per cercare gli occhiali. Mi dava fastidio il sole sulla testa adesso. Con tutto il sole che avevo preso in bici, sempre abbronzati noi due. Quanto era passato dalla mia ultima corsa? Trent’anni?
Leggevo. Lo scooter mi aveva sfiorato. L’avevo letta fino in fondo.



Orfeo aveva tirato ancora fuori la storia del Giro d’Italia del ’78.
Tre signore stavano pulendo il pavimento della chiesa con gli spazzoloni. Mi osservavano. E di colpo avevo capito che anche stavolta Orfeo mi aveva superato.
«La Gazzetta dello Sport» aveva titolato: Pasotti si ritira e abbandona il Giro.
«Inspiegabile decisione del velocista alla diciannovesima tappa,» aveva scritto il cronista «il giorno prima del gran finale a Milano. Con lui ha dato forfait anche il suo gregario Biagio Tarìn.»
Qualcuno di voi l’avrà già sentita: 1978, il nostro ultimo Giro d’Italia. Vincitore assoluto un piccolo scalatore belga, Johan De Muynk. In tutto, tre tappe a Pasotti, che se la vedeva con Moser e Saronni. Penultima tappa, il 27 maggio, Brescia-Inverigo.
Radio, giornali e tv avevano riportato che io e Orfeo a Inverigo arrivammo ultimi.


Avevamo mollato una manciata di chilometri prima; stanchi, esausti. Pasotti con un risentimento muscolare, sporco di sangue come un macellaio, a seguito di una rovinosa caduta. Il telegiornale aveva mandato le immagini di noi che arriviamo larghi in una curva, io mi inclino, scivolo e gli taglio la strada. Finiamo in un campo. Il filmato ci mostra mentre ci rialziamo. Ma Pasotti è messo male.
Il fedele gregario fa cadere il suo capitano. Triste uscita di scena per Orfeo, l’uomo più veloce della Terra. Il più veloce in bici. La figuraccia di un duo inossidabile. Cala il sipario sulle magie di Pasotti. Una splendida carriera terminata con una caduta.
Basta, Orfeo, ancora con ’sta storia?


Il ritmo stava aumentando. Parlavamo già un po’ meno. Sentivo le gambe che rispondevano, fluide. Sentivo i muscoli dentro il corpo, cioè integrati nella mia magrezza. Armonici. Ero sicuro che anche Orfeo stesse bene. Non so se si fosse messo in testa di vincerla, quella tappa, però non mi aveva mai mollato di un centimetro.


L’arrivo si stava facendo sotto. Stavamo facendo una grande gara.
Imboccammo un rettilineo, in mezzo ai campi, deserto di case e di spettatori, e misi un rapporto più duro, qualcosa che mi stimolasse, che mi facesse bruciare la coscia. Mi piaceva decidere il suo ritmo. Allungare. Portare lo sforzo al livello del non ritorno. Che poi il dolorino passa, il muscolo si abitua subito. Ma mi piaceva decidere al posto suo.
«Ohi!» mi gridò Orfeo.
Cambio di orecchie. Smisi di ascoltare la bicicletta, tornai sulla frequenza del mondo. Ma senza voltarmi. Non mi voltavo mai. Se volete correre in bici e vi voltate, allora lasciate perdere.
Passarono dieci secondi e la sua ruota non si sentiva più.
«Ohi!» ripeté.
Giuro che non si sentiva. Iniziai a rallentare. Feci uno sforzo enorme per rallentare.
Finché Orfeo non mi fu di fianco.


Da Brescia a Inverigo, con buone probabilità, ci vai se a Inverigo hai un parente. O la fidanzata. Oppure ci vai il giorno dei morti, al cimitero. Ci puoi andare anche in bicicletta, ma non per scelta. A meno che il tragitto non sia stato imposto dall’organizzazione del Giro d’Italia. Dunque, tutto sommato, ci vai. Il fatto è che io ci stavo andando veloce; ci stavo portando il capitano a Inverigo. Pensate al momento in cui un grande atleta – un fuoriclasse, un uomo ammirato dai tifosi che lo riconoscono, e che non paga mai un caffè, mai una cena – vive l’inizio del suo declino. L’avete mai immaginato quel momento? È quando tu, che sei il suo gregario, ti volti e te lo trovi lì. Al tuo fianco.
«Sei imballato?» gli chiesi.
Figuriamoci se gli passava per la testa di soffermarsi su qualcosa di tecnico.
«Hai visto?» mi domandò.
«Cosa?»
«C’era il cartello di un circo.»
«Boh.»
«Del circo Togni.»
«E allora?»
«Cesare Togni. È a Monza...»
«Dai, torna dietro.»
«Devo andarci.»
«Dai, che iniziavo a prepararmi.»
I corridori delle altre squadre presero coraggio e ci circondarono. Intanto, i nostri compagni non sapevano cosa fare, dove mettersi. Non sapevano se infilarci o no.


«Ci andiamo.»
«Ma cosa?»
«Inizia a rallentare. Alla prima curva ci buttiamo per terra.»
«Dai, dai... ci andiamo dopo l’arrivo.»
«Non mi capiterà più di incontrare Cesare Togni. Senti: qui è finito tutto. Non credo che la vinciamo. Cioè, non me la sento; non ci riesco. Va bene così.»
Non era in volata, ma gli era spuntata la vena.
«Va bene così... Ho trentasette anni.»
«E io trentuno. E allora?»
«Allora basta. Finirla qua o finirla a Milano non cambia.»
«Orfeo, a Milano ci aspettano tutti, sono già pronti a intervistarci. Non ce n’è troppi come te, alla tua età, che sono ancora forti.»


La vena gli stava per scoppiare. Credo che fosse per quello, per la vena, che per la prima volta si rivolse così a me.
«Chi è il capo qui?»
«Tu.»
«Allora, adesso, alla prima curva, mi vieni sulla sinistra. Ti butti e...»
«Mi butto cosa?»
«Ti butti per terra, la prendi larga e mi fai cadere.»
Mi diede una manata sulla testa.
«Finiamo nel campo e aspettiamo che passino. Terminiamo la corsa in coda al gruppo, tranquilli. E all’arrivo, senza scendere, giriamo e torniamo a Monza. Dovremmo farcela per lo spettacolo del pomeriggio.»
«No, Orfeo, non ti faccio cadere.»
«C’è solo da aspettare che passi l’ammiraglia. Gli diciamo che terminiamo ultimi.»
«E se arriva la Rai?»
«Lo vedono, no?»
«Perché vuoi fare questa messa in scena?»
Si capiva che voleva aggiungere qualcosa. Che con nessuno dei ragazzi avrebbe fatto una figura del genere. Si capiva che preferiva che non gli domandassi altro.
«Se ti faccio male?»
«Vai giù bene tu.»
«Non sono mai caduto.»


«Vai giù bene, lo so.»
Pedalammo ancora davanti per quattro chilometri fino a una curva a gomito, messa lì, dal destino, per farci cadere. Poco dopo guardavamo gli altri sfilare al di là del fosso. Qualcuno urlò, ci fece coraggio. Orfeo sorrideva. Era un sorriso enigmatico però pieno; pieno di robe. Tipo idiozia, furbizia, egoismo.
«Davvero vuoi andare al circo? Adesso?» gli chiesi.
«Sì.»
«Al circo?»
In quell’istante realizzò che ce l’aveva fatta. Che ero il gregario perfetto. Un cameraman frenò di colpo. Non gli parve vero poterci fare una ripresa.
«Orfeo, stai mandando tutto all’aria. Non è così che si manda all’aria una cosa. Ci sono modi e modi.»
«Lo sai. Fai finta.»
Attraversammo la linea dell’arrivo malconci, scortati dalla nostra macchina. Il pubblico, quando vide Orfeo in fondo al gruppo, restò deluso, però gli gridò lo stesso «Bravo» e «W Pasotti!». Radio Corsa stava dicendo che la tappa era stata vinta da Vittorio Algeri e che Pasotti e Tarìn, a causa di una brutta caduta, erano finiti ultimi.
C’era, come al solito, una gran confusione: tifosi, fotografi, giudici, giornalisti, ciclisti sfiniti che scendevano dalle bici e si coprivano con l’asciugamano.
Transitammo davanti al palco della premiazione cercando di farci largo. I nostri ragazzi volevano sapere da Orfeo come stava, ma lui non ci fece caso. A piccole pedalate riuscimmo a fendere la folla e a liberarci della nuvola di gente.
«Gira a destra,» mi ordinò il capitano «vediamo dove porta.»


Che cosa avrà pensato il paio di ciglia alla cassa? Le donne che stanno alla cassa del circo vengono prima dei lustrini, della scollatura, delle unghie rosse, ma dopo le ciglia. Hanno delle ciglia così lunghe che sbattono contro il tendone.
Però credo non le capitasse tutti i giorni di vedere due fare la coda, vestiti da ciclisti, e avvicinarsi, sudati, a chiedere un palco. Cioè la prima fila. Addosso alla pista, dentro la pista, nel cuore del circo.
L’avrebbero riconosciuto Orfeo? O l’avrebbero spedito, a calci nel culo, su nel trapezio, a fare il salto della morte?
La sua espressione mi faceva andare in bestia.
Ora, obiettivamente, cha cosa ci facevamo noi due al circo?
Avevamo appoggiato le bici fuori, a una transenna. Le avevamo abbandonate, come la nostra penultima tappa. Ma credo che a lui non interessasse granché se ce le fregavano. Non diceva niente. Allora, se riuscite a capire, era un silenzio colmo d’imbarazzo. O di straordinaria, inspiegabile felicità.
«Lo sapevo» bisbigliò mentre ci stavamo sedendo.
Tre enormi fari erano puntati sull’ingresso degli artisti. Si sentiva un inconfondibile puzzo di segatura. Una sola consolazione: Orfeo non sanguinava più.



«Che cosa?» gli chiesi fissando un inserviente che sgattaiolava su una colonna, alle luci.
«Non sei capace di cadere.»
«Ma va’ là...»
«Non è colpa tua. Non ti ho mai insegnato.»
Gli avrei spaccato la faccia.
«È già qualcosa se hai smesso di sanguinare.»
L’orchestra attaccò. Si aprì il sipario e uscì il clown.
«Lui è il più grande di tutti» sentenziò Orfeo.
«Lo conosci?»
«È Romualdo, Romualdo Simili. Non ce n’è di più bravi.»
Il clown fece un giro di pista, ci passò davanti e, dopo due metri, si voltò a guardarci.
Ci credo, non eravamo vestiti come gli altri lì dentro. Quando tornò verso il sipario, lo aprì da una parte e subito irruppero, uno dietro l’altro, otto cavalli bianchi al galoppo, con i pennacchi, senza selle. Alzarono una nuvola di segatura. In mezzo a loro comparve il domatore, un omone vestito in smoking e con le scarpe lucide.
«È lui. Cesare Togni» annunciò Orfeo.
Assomigliava al meccanico del nostro paese.
«È uguale a Bedini» commentai.
«Chi? Padre o figlio?»
«Il padre, no? Non lo vedi come è grasso?»



Stava al centro della pista, girando su se stesso, e faceva correre i cavalli, li faceva camminare sulle zampe posteriori. Mi piaceva quel numero. Gli animali eseguivano ogni esercizio con grande naturalezza. Anche incrociarsi, a coppie, o l’inchino. Era una cosa elegante da vedere.
Subito dopo uscirono un giocoliere con i birilli (anzi, le clave, come mi spiegò Orfeo); una contorsionista; una famiglia di equilibristi russi che si salivano sulle spalle decollando dalla bascula; gli animali esotici tipo dromedari, lama, zebre.
Era la prima volta che vedevo certi animali da vicino. Il dromedario, per esempio, che aveva una gobba sola. E una bestia simpatica come la zebra. Vidi anche le scimmie che andavano in moto e suonavano la chitarra. E un fachiro che sputava il fuoco e lanciava i coltelli.
Ogni tanto tornava in pista Romualdo con una trovata. Un serpente finto, che era la sua mano, o i capelli che gli si alzavano e si muovevano come una girandola.
Poi, quando la presentatrice annunciò il numero di una giovane funambola, Isabel, Orfeo si agitò.


«Stai zitto. Mi sudano già le mani.»
Sembrava tornato bambino.
«Eccola» aggiunse.
Non la smetteva di riconoscere tutti.
Isabel era una ragazzina. Indossava un mantello luccicante e le scarpe con i tacchi. Si portò in mezzo al cerchio e fece un inchino. L’orchestra l’accompagnava con una sigla. Lei guardò il filo teso, tra due sostegni, sopra la testa. Poi arrivò un inserviente alle sue spalle, Isabel si levò il mantello, senza voltarsi, e lo lasciò cadere nelle sue braccia. La musica cambiò. Anche le luci. La ragazza corse verso la scaletta, si tolse le scarpe e salì.
Adesso il circo era tutto buio fino a quando non si accese un solo faro, dalle gradinate, che la incorniciò in un tondo perfetto. La sua ombra si scomponeva contro il sipario. Se non aveste guardato lei, vi sarebbe bastato guardare la sua ombra per capire una cosa: Isabel era bella.
Non vorrei sbagliarmi, ma Orfeo tremava.


Isabel arrivò in cima, sulla tavoletta di legno. Davanti aveva un filo teso e, per qualsiasi persona normale, troppo lungo e troppo alto. Fece ancora un inchino, allungò il collo, fiera, quasi strafottente. Fece scivolare prima il piede destro e dopo il sinistro avanti e indietro sulla fune, quindi, senza allargare le braccia, si lanciò.
In tre secondi fu dalla parte opposta, sull’altra tavoletta di legno. Si girò con un salto e rifece il tragitto. Andò da una parte all’altra, tagliando la pista in due, per cinque volte. Una roba mai vista. Non camminava sul filo. Ci correva sopra. Gridò «Alé!» e il pubblico scoppiò in un grande applauso. Soltanto ora era suo, l’aveva conquistato.
Mai vista una che ci correva in quel modo, là in alto.
Orfeo si sporse verso la pista; non era esattamente seduto, lievitava sulla sedia.
Isabel sorrise. E, per aumentare la tensione, camminò all’indietro fino al capo più lontano da noi due. Un braccio, da sotto, le lanciò una corda. Lei la fece roteare come un lazo, ci giocò un po’, poi si portò al centro del filo e incominciò a saltare, veloce, anzi, velocissima. La corda faceva un giro al secondo. Durò un minuto, cioè sessanta salti, senza inciampare.
Adesso la gente era tutta con lei sopra al filo.


Isabel batté le mani, a ritmo di musica, e noi la seguimmo. Quindi decise di fare davvero sul serio. Ripeté l’esercizio della corda, stavolta bendata. Non so se l’hanno notato in tanti che la benda era un foulard rosso che usava da cintura. Si sfilò il foulard e si bendò. Quando una femmina si toglieva qualcosa di dosso, fino a quel giorno, per me si spogliava. Cioè, si stava spogliando. Era questo che vedevo fino a quel giorno. Ma Isabel lo fece appoggiando le dita sotto l’ombelico come se le sue mani fossero rondini. Come una ballerina che usa le nacchere. O come una madre che si slaccia il grembiule. Non so. Era tutte e due le cose.
Sessanta secondi senza fiatare sono un tempo infinito. Ora il circo era illuminato, ma per lei era buio. Sessanta salti al buio, se riuscite a capire, su un filo a sei metri da terra. Sessanta volte che i piedi si alzano e ritornano su una linea retta con niente a destra e niente a sinistra.
La presentatrice disse qualcosa, tipo applauditela, e gli orchestrali, che assomigliavano più a una banda da paese, una cosa da alpini, che a dei direttori d’orchestra, ci diedero dentro.
Orfeo era eccitato.


Naturalmente, a quel punto, ci aspettavamo un gran finale. Isabel si strappò dagli occhi il foulard e lo gettò via. Il foulard, però, prima di appoggiarsi a terra, sui trucioli calpestati da bestie e mocassini, fluttuò nell’aria, quasi che non volesse, che preferisse restare sul filo, con la sua proprietaria. E mi parve che andasse a posarsi in un angolo solamente quando l’applauso era terminato.
Non era quello il gran finale, non ancora.
Era il salto mortale.
L’inserviente, con una chiave inglese, allentò il filo, in basso, alla base del sostegno. Ora toccava al batterista, il più alpino di tutti, per via della faccia violacea. Rullo di tamburi. Isabel prese lo slancio. Si accovacciò. Cercò di diventare una cosa sola col filo; di sentirne la vibrazione. Immagazzinò la sua energia. Si stava trasformando in un elastico. Nessuno fiatava. Per rispetto. Perché partecipavamo alla sua fatica. I piedi si staccarono. E disegnarono un cerchio nell’aria.
Alé.
Un boato. Venne giù il tendone. Isabel ce l’aveva fatta.


«Ammiratela!» urlò la presentatrice.
Orfeo applaudì così tanto che pensai che si fosse scorticato le mani, anche se, forse, non gli sarebbero più servite per stringere un manubrio.
Basta.
Stavolta lo potevo dire anch’io che andava bene così. Isabel non doveva più dimostrare niente. Doveva solo scendere, prendere gli applausi e tornare nella carovana. Ma tutti noi intuimmo che non era ancora il momento quando, giusto per rilassarsi, fece una spaccata e con un colpo di reni – che reni poteva avere una ragazzina di quindici anni? – tornò su.
La presentatrice si portò al centro della pista.
«Signore e signori, vi prego di fare silenzio. Isabel Togni concluderà il suo numero con un esercizio che non avete mai ammirato in nessun altro circo del mondo. Il doppio salto mortale sulla fune. Incoraggiatela con un grande applauso!»
Isabel guardò negli occhi, uno a uno, ogni spettatore seduto sulla sua poltroncina.
Regalò, a ciascuno di noi, un sorriso dolce. Ma colmo di sfida.



Il tendone era pieno di tensione e di attesa. Anche i bambini avevano smesso di strillare. Il batterista si mise in posizione. E chi stava per tossire o per starnutire o per sgranchirsi le gambe, fare un movimento, soffiarsi il naso, mangiare un popcorn, si fermò. Con uno sbadiglio aperto, un moscerino nell’occhio, una stringa slacciata.
Orfeo non sudava. Poiché era di ghiaccio, al limite sgocciolava.
Rullo di tamburi. Di nuovo l’inserviente diede un giro al marchingegno. Isabel si raggomitolò. Stava ancora per diventare il suo filo, anzi, lei era quel filo. Era la polvere scomposta nel cono di luce, era tutto il circo, l’occhio dell’elefante, la giacca di Romualdo, la paglia dei cavalli, era quei cavalli, le lettere che componevano l’insegna luminosa all’entrata, le lampadine di quell’insegna, la «C», la «E», la «S», la «A», la «R», la «E», il bastoncino dello zucchero filato, il pezzo di carne che mangiava la tigre, il volante dei camion, era domatrice, antipodista, icariana, era i collant della contorsionista, il borotalco tra le dita del trapezista, il cerchio lanciato in aria dal giocoliere... era lo zoccolo, la zanna, i canini appuntiti... era la forza di gravità, il microfono…


I piedi si staccarono dal filo... era il cotone per togliersi il trucco, la locandina dello spettacolo a Roma... disegnarono un cerchio nell’aria, la testa in orizzontale, in basso, in orizzontale... era il vuoto, la piramide umana, la gabbia, l’arcano, la gru, le corde, i picconi... disegnarono un secondo cerchio nell’aria... era una piazza, una strada, una piazza, una strada... era cambiare scuola ogni settimana, leggere male, volersi mettere il rossetto per imitare sua madre (la presentatrice)... i piedi si posarono, perfetti, sul filo... era adrenalina, dimostrare di esserci, di fare il circo... era un’ovazione.
Un applauso fragoroso spezzò il silenzio nel tendone. Tutti ci alzammo in piedi. Tutti ci mettemmo a urlare.
«Applauditela!» incitava la presentatrice. «Isabeeel Togni!»
Alé. L’orchestra non seguiva nemmeno più gli spartiti. Fece un baccano dell’altro mondo, ogni strumento andava per conto suo. La gente si sfinì a furia di applaudire. I bambini piangevano, erano spaventati.



Fu in quel preciso istante che mi ricordai di Orfeo e mi voltai verso di lui. E ciò che vidi era un uomo, un campione, con il cuore in gola. Le braccia in avanti, ma pietrificate. Tendeva ogni muscolo. Dentro, il suo cuore batteva a mille.
«Isabeeel Togni!»
Isabel scese dal filo, si infilò le scarpe con i tacchi, raccolse il foulard e fece un ultimo inchino. Non esagerò. Per una della sua età non esagerare voleva dire avere classe da vendere. Sorrise senza aprire le labbra. Si voltò e scomparve dietro il sipario.
Tutti i numeri che vennero dopo, nella seconda parte dello spettacolo, sembrarono nulla in confronto. Anche se servirono a Orfeo per riprendersi, il gomito ancora sporco di sangue e la vena sempre fuori, sulla fronte.
Era felice. Non lo avevo mai visto così, neanche per la vittoria di una tappa.
Terminato lo spettacolo, dopo il saluto degli artisti – anzi, la parata, come mi spiegò – Orfeo continuò ad applaudire, non la smetteva, batteva ancora le mani anche quando il circo si era svuotato e perfino Romualdo se ne era andato. Si sentiva solo lui. Le sue mani.
Mentre le luci si stavano spegnendo, mi disse: «Vieni».



Ormai l’avrei seguito ovunque senza fargli domande.
Uscimmo, andammo verso le roulotte. Me ne indicò una, bianca, con un balconcino sul quale avevano sistemato dei vasi di gerani.
«Questa dev’essere di Isabel.»
Non che ci volesse molto a capirlo: su un lato c’era scritto, a lettere circensi, cioè a caratteri cubitali, ISABEL TOGNI.
«Sì?»
«Vorrei andare a salutarla.»
«Sì?»
«Farle i complimenti. È brava, no?»
C’era una finestra accesa, sul retro.
«Che ne pensi?»
«Bravissima.»
«Ci andiamo a salutarla?»
«Non la conosciamo neanche» risposi. «Magari disturbiamo.»
Orfeo si avvicinò di più, fin sui gradini.
Era buffo, con la maglia da ciclista, l’aria pensierosa. Faceva tenerezza. Poi ci ripensò e tornò da me.
«Ma no, hai ragione tu: magari disturbiamo.»


Ettore aveva ragione a fare quella faccia. Non so che cosa avesse pensato, al bancone del bar, quando gli avevo detto che dovevo andare al circo. Il fatto è che la mia vita è sempre stata un dover andare. Se sei stato professionista, questa cosa non ti abbandonerà mai. Ti tocca vivere con due idee in testa: la partenza e l’arrivo. E anche quando sei fermo, anche quando smetti, ti sembrerà di andare.
Io vado per Orfeo. Presente storico. Da gregario, da amico che è appena stato al suo funerale.
«Dove vai?» ha voluto sapere mia moglie.
«Quando torno, te lo spiego.»
In effetti, sto andando ancora dove vuole lui. Come un pilota su un bolide lanciato verso il traguardo, che fa schizzare in aria, di qua e di là, le enormi «A» delle insegne luminose, gli oleandri dello spartitraffico, i cartelli verdi, la polvere, le cartacce.
Non ho mai avuto mete irresistibili. Ora sto raggiungendo Voghera. È lì che c’è il circo.
Si chiama ancora Cesare Togni, ma non è più la stessa cosa, mi sono documentato. Lavorano con la famiglia di Vanes Rossante e la famiglia Valeriu. I Togni hanno portato tre elefanti, le piramidi equestri, il cavallo comico, la ballerina a cavallo e, naturalmente, Isabel.
Vado a Voghera perché è lì che c’è Isabel.
Mentre le signore che stavano pulendo la chiesa, con gli spazzoloni, mi guardavano, avevo letto sulla lettera che Isabel è la figlia di Orfeo.
Era stato allora che l’avevo saputo.
Avevo fatto bene a non leggerla con gli occhiali. Non che dovessi capire altro.


Orfeo aveva ventidue anni quando in paese era arrivato il circo. Durante l’intervallo aveva guardato la presentatrice come un divo del cinema e lei lo aveva invitato nella sua roulotte.
In pratica, avevano concepito una figlia.
Orfeo, da ciò che mi ha scritto nella lettera, lo aveva saputo solo un anno dopo, quando il tendone chissà dov’era, e la presentatrice gli aveva inviato un telegramma.
La gente del circo è, in realtà, molto più discreta di ciò che si possa pensare. Glielo aveva fatto recapitare in albergo, a Busseto, al termine di una cronometro individuale.
Dopo la sua confessione, la cosa che mi fa più agitare, è che non riesco a ricordarmi se quella sera Orfeo si fosse nascosto dalla madre di Isabel o se lei l’avesse riconosciuto, dato che eravamo vestiti da ciclisti, o se invece l’avesse già dimenticato.
Secondo me lei l’aveva riconosciuto, ma aveva fatto finta di niente.
Conto con le dita delle mani: Isabel oggi ha quarantatré anni. Non posso pensare che salga ancora sul filo. La moglie di Orfeo ne ha sessantatré. Io ne ho cinquantanove. E l’Italia ha appena vinto i Mondiali battendo la Francia 6 a 4 dopo i calci di rigore.


Quando arrivo a Voghera, nel piazzale della piscina in cui hanno montato il tendone, ci rimango male. Non è la stessa cosa.
Mi metto in coda alla cassa e mi accorgo che le ciglia della cassiera sono sempre due. Però sembrano molto più lunghe.
I numeri al circo sono solo un’esibizione dietro l’altra. Un’uscita dietro l’altra.
Orfeo, nella sua lettera, è stato fin troppo chiaro. Voleva che dicessi a Isabel chi era suo padre. E che era morto.
«Prego» mi dice la cassiera.
«...»
«Signore, prego»
«...»
Ma io mi faccio da parte. Lascio passare chi è dietro di me, in fila.
Effettivamente mi passa davanti.
Però non è Orfeo.

FINE

MATTEO COLOMBO "Magari disturbiamo"

il racconto che ha vinto il laboratorio di scrittura del Corriere della Sera