Incontri di storie

AMM - Archivio delle memorie migranti
si racconta


"La Vita Scolastica", "Scuola dell'infanzia" e "Sesamo" quest'anno augurano buone feste a tutti i lettori insieme ad AMM, Archivio delle memorie migranti.
Nel testo che vi proponiamo, sono state raccolte storie di diversi collaboratori di AMM che ci invitano a riflettere, conoscere, cambiare. Insieme.

“Incontri di storie” è a cura di Monica Bandella, le fotografie sono di Mario Badagliacca. I disegni sono di Luca Serasini e sono tratti dalla prima parte dell’opera “#migrantes”, riprodotta in fondo al testo.

Presentiamoci


- È bene che ci presentiamo tutti? Forse sì, brevemente. Allora: due parole.
- Gabriel.
- Eritreo?
- Sì eritreo. Di recente a Roma, sono cinque-sei mesi, diciamo, che sto a Roma. E spero di rimanere a Roma.
- Giulio, di origine valtellinese.
- Stefano, da due anni a Roma, vengo da Pompei. Vicino a Napoli.
- Maaza, Etiopia, e Stati Uniti.
- Monica, eporediese. Di Ivrea, in provincia di Torino.
- Gianluca, italo-napoletano, a Roma da un anno.
- Behts, vengo da Lima, Perù.


- Alessandra, abruzzese, a Roma da cinque-sei anni.
- Enrico da Roma.
- Dag. Dall’Etiopia e sono qua da tre anni e mezzo.
- Abubakar, essere umano, nato in Somalia, oggi in Italia.

(da un seminario sulla memoria curato da AMM, 31 gennaio 2011)

Un posto speciale


Sono nato a Mogadiscio, un posto speciale che non so come chiamare, dove tanta gente lavora tutto il giorno, dove i miei cari genitori lavoravano per noi e per farci crescere, dove tutte le mattine della mia vita, fino all’età di 21 anni, mi svegliava il mare. Era vicino a casa nostra e lo sentivo tutti giorni quando era molto mosso. Ma tutti giorni sempre lì rimane. Le mie sorelle tutti giorni mi accompagnavano alla scuola coranica e ogni venerdì, quando era chiusa la scuola, andavo al mare. Volevo respirare profondamente, guardare tutto il mare intorno e divertirmi con gli altri ragazzi, ma mia madre non voleva che io andassi al mare; io ho sempre amato nuotare nell’acqua ma mia madre porta con sé un dolore che sente sempre, un dolore che non dimentica mai per la morte di suo fratello che è morto nel mare.



Ma io andavo lo stesso, anche senza dirlo a mia madre. Mi nascondevo e non lo dicevo a nessuno, tranne a mia sorella Faiza!
Sono in Italia e sono lontano dal mio paese, ma io sento lo stesso quel mare, me la sento ancora la mia città amata, la mia Mogadiscio che mi ha permesso di crescere e vivere una vita abbastanza felice rispetto ad alcune famiglie che vivevano in difficoltà.
Guardando il mare, ho imparato delle cose interessanti e molto importanti, forse le cose che ho imparato non le sanno tutti, ho imparato la diversità dei giorni, lo sguardo di ognuno, ho imparato di non avere mai la certezza di quello che accadrà domani.
La mia Mogadiscio di guerra era una città in cui spesso sentivo di non sapere quello che sarebbe accaduto l’indomani: un giorno ti svegli che tutte le strade di Mogadiscio sono bloccate;


un giorno ti svegli che il mare è tranquillo e ci sono tanti ragazzini, tante persone che nuotano e giocano fra di loro e si divertono, un altro giorno è tutta diversa: ti svegli che il mare è mosso e rischi di ’entrare’, nel mare.

(dal diario “To whom it may concern” di Zakaria Mohamed Ali, 2008)

Entrare


‘Entrare’: 'Galid/Gelid' in somalo. Se metto le due parole a confronto dal mio punto di vista, per ragionare sul come entrare in un mondo diverso, prima di tutto secondo me va analizzato, chi entra e cosa ha? da dove entra? a chi s’entra? perché entra? per una scelta o per una necessità?, tocca farsi domande di questo tipo per riuscire a riflettere meglio sul fenomeno. Per me è molto complicato riflettere perché io lo vivo il dilemma dell’entrare in una società diversa, che in più non vuole riconoscere la diversità. Mi piace quando rifletto su un determinato fenomeno, di staccarmi un minimo, comunque affermo in poche parole, e secondo la mia visione, che tocca scegliere fra: fare finta di essere entrato o, come usano qui, di essere integrato, oppure farsi riconoscere come una persona diversa, e sempre tocca accettare tutti i rischi possibilmente affrontabili da qualunque scelta presa e possibilmente valutare prima di optare la scelta definitiva, i rischi di fare la scelta meno dannosa perché, siccome siamo persone, dobbiamo prendere la strada meno pericolosa, e nel frattempo salvaguardare la nostra dignità.

(dal "Glossario" di Abubakar Mukhtar, 2012)

Nessuno lascia...


Nessuno lascia la casa a meno che
la casa non sia la bocca di uno squalo
scappi al confine solo
quando vedi tutti gli altri scappare
i tuoi vicini corrono più veloci di te
il fiato insanguinato in gola
il ragazzo con cui sei andata a scuola
che ti baciava follemente dietro la fabbrica di lattine
tiene in mano una pistola più grande del suo corpo
lasci la casa solo
quando la casa non ti lascia più stare.

Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci
fuoco sotto i piedi
sangue caldo in pancia


qualcosa che non avresti mai pensato di fare
finché la falce non ti ha segnato il collo
di minacce
e anche allora continui a mormorare l’ inno nazionale
sotto il respiro/a mezza bocca
solo quando hai strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto
singhiozzando a ogni boccone di carta
ti sei resa conto che non saresti più tornata.

Devi capire
che nessuno mette i figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra
nessuno si brucia i palmi
sotto i treni
sotto le carrozze


nessuno si brucia i palmi
sotto i treni
sotto le carrozze
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di carta di giornale a meno che le miglia percorse
non siano più di un semplice viaggio

nessuno striscia sotto i reticolati
nessuno vuole essere picchiato
compatito

nessuno sceglie campi di rifugiati
o perquisizioni a nudo che ti lasciano
Il corpo dolorante

né la prigione
perché la prigione è più sicura
di una città che brucia


e un secondino
nella notte
è meglio di un camion pieno
di uomini che assomigliano a tuo padre

nessuno ce la può fare
nessuno può sopportarlo
nessuna pelle può essere tanto resistente […]

(da “Casa” di Warsan Shire, trad. di Paola Splendore, 2009)

Dialogo con tre agenti della Guardia di Finanza




(dal "Diario di campo a Lampedusa" di Gianluca Gatta, 2005)


Agente 1: «Ma dove credono di andare?! Si fanno la barba, si mettono il gel!»;
Io: «Io una volta ho visto su un barcone un lucido per scarpe; e un uomo mi ha anche chiesto del deodorante»;
Agente 2: «devono andare a ballare!!!»;
Io: «Forse non vogliono apparire sporchi e in disordine»;
Agente 1: «Si preparano a festa…»;
Io: «Ma questo avviene una volta che sono saliti sulle vostre navi?»;
Agente 3: «No, no, sul loro barcone, già sul barcone loro; io prima stavo sul loro barcone e tutti quanti si facevano la barba»;
Io: «Ma allora è vero che riescono a radersi a bordo?!»;
Agente 3: «Sì, perché si fanno tutti la barba al momento»;
Io: «Allora dire che sono in mare da poco perché hanno la barba fatta è sbagliato?»;
Agente 3: «Se la fanno, se la fanno! Hanno le lamette usa e getta, a secco… ce n’era uno che faceva così [mima il gesto di una persona che si rade con forza]».

Corpi sbarcati


Il mio avvicinamento allo scenario dello sbarco seguì l’ombra di Medici Senza Frontiere, con cui ero entrato in contatto prima di partire. La mia presenza sulla banchina era stata così legittimata dalle forze dell’ordine, ma senza un’autorizzazione scritta. Era, quindi, una presenza revocabile in qualsiasi momento. Mi trovavo in uno dei punti chiave della costruzione sociale della clandestinità, dove i corpi venivano inquadrati in un processo di purificazione simbolica e neutralizzazione materiale. Sotto le apparenze dei meccanismi asettici e dati per scontato dell’azione tecnica assistevo al sistematico disconoscimento della parola delle persone arrivate. In quel frangente, i racconti e le biografie di quelle persone, considerate menzognere per definizione, non risultavano 'necessarie'. Per le forze dell’ordine il corpo diceva tutto quello che bisognava sapere: il colore della pelle sanciva l’appartenenza alla categoria del 'rifugiato' ('nero') o del 'clandestino' ('olivastro'); la lunghezza della barba denunciava i giorni di viaggio; vestiti e pelli lacere confermavano il primato di un’azione di intervento sulle nude vite.



Un sorriso, un ghigno, uno sbuffo, così come un vestito dignitoso o uno zainetto alla moda attivavano, al contrario, il sospetto di un abuso in corso, di una presenza incongruente. Tutto ciò che si discostava dalla prostrazione 'animalesca' per avvicinarsi al decoro metteva in discussione l’autoevidenza dell’intervento umanitario e securitario, lasciando così trasparire l’inquietante spettro di storie da ascoltare. In quella situazione si consumava anche la lacerazione del rapporto tra persone e oggetti di affezione. Sacchetti di plastica con fotografie e memorie di ogni tipo venivano molto spesso abbandonati dagli stessi migranti a causa di 'necessità' più impellenti, oppure venivano loro sottratti. Significativamente tra gli oggetti 'pericolosi' tolti ai migranti c’erano penne o matite per scrivere e comunicare, o pettini e rasoi, per rendere dignitoso il proprio aspetto. Una situazione, quella dello sbarco, che sembra essere metafora di qualcosa di più generale, che riguarda il rapporto di un Paese con gli stranieri che vi giungono, sintetizzabile nella considerazione di Zakaria, un amico somalo: “Non ti chiedono mai di raccontarti”.

(da “Note su un ‘fieldwork’ a Lampedusa e oltre” di Gianluca Gatta, in "Primapersona", 26, 2012)


Confortare il caos


Era il 20 dicembre 2013 quando stavo tornando a casa con la busta della spesa. Fui fermato da una pattuglia dei carabinieri, ad Arco di Travertino. I poliziotti si avvicinarono e mi chiesero i documenti. In quel momento i miei timori presero corpo e divennero un incubo perché temevo per il mio destino. Fui subito caricato in macchina e portato all’Ufficio Immigrazione della Questura, per ulteriori accertamenti.
Dopo ho fatto il tragitto fino a Ponte Galeria. Mentre mi avvicinavo al CIE il mio stato di tensione cresceva sempre di più, sapendo che sarei entrato lì dopo qualche istante.



Durante il tragitto sapevo che mi stavo separando dagli ultimi momenti di libertà, ne ero a conoscenza ed ero ben consapevole di cosa avrebbe significato essere portato a Ponte Galeria, perché sapevo che lì gli uomini, sono privati di ogni forma di libertà in quanto essere umani.
Varcata la soglia di quel luogo fui avvolto da una sensazione di totale sconforto, desolazione e paura: la combinazione delle sensazioni peggiori che un uomo possa mai provare. Durante l’ennesima perquisizione ero molto teso. Dopo mi hanno identificato attraverso un numero, quello riportato sul tesserino di riconoscimento, e che ha sostituito il mio nome per l’intera permanenza nel CIE. Quel numero rimane scolpito nella mente: Il mio era il 7721.


Mi internarono subito nel settore maschile, era notte, e dove mi giravo vedevo solamente sbarre. Sembrava di stare in un campo di concentramento 'civilizzato' con il freddo, i fanali accesi, i settori con le sbarre, i carabinieri con le divise scure. Nella penombra potevo intravedere le ombre degli 'ospiti'. Ufficialmente le autorità chiamano i detenuti così. Vagavano in mezzo a quei ferri. Erano sette. Assomigliavano a degli zombies con l’anima marchiata, con il passo lento e l’atteggiamento di rassegnazione. Mi accolsero e furono gli unici a chiedermi il nome e a confortare il caos che mi circondava.

(Lassaad Jelassi in “Lettere dal CIE” di Mario Badagliacca, 2015)


Ritorno a Lampedusa



Guardavo il passaggio del mare da lontano e mi ha fatto pensare che durante il viaggio odiavo il mare e anche che mi sembrava un assassino e mi faceva paura, invece oggi il mare era talmente tranquillo e quando l’ho visto così piatto e calmo, chiedevo tra me e me: “Mare che carattere hai? Anche tu fai la discriminazione, cerchi i poveri clandestini?”.
A Cala Palma ogni sera si parlava fino a tardi; il primo giorno non potevo né parlare né ballare, mentre la gente ballava sulla spiaggia io guardavo le stelle, contavo le stelle e individuavo indicatori tipo caspia che indica nord, w-nord, le stelle a croce che indicano sud, questa è la mia passione iniziata quando ero soldato.


Le stelle sono l’imperfetto indicativo. A me in particolare nel viaggio, quando abbiamo perso la direzione, le stelle mi hanno aiutato a trovare la direzione giusta. Così immaginavo: adesso in questo momento forse alcune persone stanno arrivando e sono in difficoltà e stanno tra il salvarsi e il morire nel viaggio sul mare, perché l’ho vissuto durante il mio viaggio.
Questo sentimento non era solo mio, ho chiesto a un amico sbarcato come me e ritornato a Lampedusa e mi ha detto: “Non posso, non mi va di ballare vicino alla spiaggia, davanti a questo mare, anzi, mi viene da piangere”. Anche lui aveva la stessa sensazione. Mi diceva: “guarda questo mare di notte, ti fa paura? Seconde te, se proviamo a contare, quante persone ha mangiato questo mare?”. Non lo so, non ne ho idea. Quante stelle potrebbero essere cadute nel mare?

(dalla storymap “Ritorno a Lampedusa” di Mahamed Aman, 2013)


A scuola


A scuola: le domande che mi fanno gli alunni.

Quelle che un po’ mi spiazzano:

• Perché, se anche loro non stanno bene, tu sei partito da solo e hai lasciato i tuoi famigliari nel tuo paese?
• Perché sei qui?
• Ma anche nel tuo paese c’è il razzismo?
• Perché un soldato scappa dalla guerra?
• Ma da te chi sono i cattivi?
• Come ti trovi qui in Italia?
• Torneresti nel tuo paese?
• Cosa c’è di bello nel tuo paese che in Italia manca?
• Com’è il deserto?


Quelle che mi fanno sorridere:

• Perché quando sei partito non hai portato lo spazzolino da denti?
• Perché non hai preso l’aereo per venire in Italia?
• Ma nel tuo paese esiste la pioggia?
• Perché hai quella macchia sulla fronte?
• Che squadra tifi?
• Come si diventa un pirata?
• Dopo me lo fai un autografo?
• Mi regali una tua foto?
• Hai mai visto i leoni?
• Se tu vincessi la lotteria, cosa faresti?


Quelle che vorrei che mi facessero:

• Che differenza c’è tra l’Italia che immaginavi prima di partire e quella che conosci oggi?
• Che cosa pensi quando ti chiamano “ragazzo di colore”?
• Cos’eri prima di partire, prima di diventare un “migrante”?
• Perché, secondo te, gli italiani non vogliono ricordare il passato coloniale?
• Se ti dicessi: “Perché non provate a risolvere i vostri problemi a casa vostra?”, come reagiresti?
• Che cosa sono per te l’integrazione e l’intercultura?
• Qual è il tuo sogno?


• Che cosa ti aspetti dall’Italia?
• Che cosa dovrebbe fare il governo italiano per i migranti?
• Che cosa diresti a un giovane che vuole migrare oggi?

(Mahamed Aman e Zakaria Mohamed Ali per "Mediatori sul ponte", evento a cura di AMM, 2012.)


La mia passione


Dopo un’attesa di circa 8 mesi per le procedure di riconoscimento della protezione internazionale, ho ottenuto lo status di protezione sussidiaria, il secondo livello della protezione internazionale. Ho ritirato il permesso nel marzo del 2009 alla questura di Roma: da lì è iniziata la lotta del vivere tra mille difficoltà e ostacoli, e ho iniziato alcuni lavoretti, uno presso l’Università di Roma Tre, nella facoltà di lettere e filosofia, come lettore di lingua somala; poi ho iniziato a fare vari corsi di formazione facendo quello che trovavo, dal magazziniere alla mediazione interculturale; ho anche fatto piccoli lavoretti attraverso le agenzie di lavoro, sempre occasionali, ovvero a chiamata. Nel frattempo ho deciso di iscrivermi all’Università e ho aspettato le procedure dell’equipollenza e del riconoscimento del diploma di scuola superiore ottenuto in Somalia. Infine mi sono iscritto all’esame di ammissione per le professioni sanitarie optando per le scienze infermieristiche alla Sapienza.


Mentre frequentavo il secondo semestre di infermieristica, mi sono accorto che questo mestiere non faceva per me perché ho fatto la mia scelta valutando solo lo sbocco lavorativo e trascurando la mia passione. Così ho abbandonato infermieristica, riprendendo di nuovo la ricerca di lavoretti e prendendo nel frattempo la patente di guida, poi ho cominciato a lavorare nel mondo precariato del sociale come mediatore interculturale e interprete, cosa che a tutt’oggi faccio occasionalmente.

(da “Autopresentazione all’Università per Stranieri di Perugia" di Abubakar Mukhtar, 2013)


Una parola difficile


'Amicizia': una parola difficile e concettualmente variabile, comunque secondo la mia cultura l'amicizia parte dall’avere in comune qualcosa; perciò, per esempio, io ho amici di barca, amici di viaggio, amici di studi, amici di lavoro, amici conterranei, amici per consanguineità, amici di cultura, amici di pensieri, amici di credo religioso e cosi via dicendo.


La qualità dell’amicizia naturalmente dipende della qualità di ciò che si ha in comune, per esempio un persona con cui hai in comune il credo religioso, una lingua e cultura, un sistema pensierico, un determinato territorio, di natura non ti sarà ugualmente simile come uno con cui hai in comune solo una di queste cose, perciò per non essere amici solo nel senso politico in cui chiarisce il famoso detto arabo, "il nemico del tuo nemico è il tuo amico", tocca di ridurre le distanze e cercare di avere più cose possibili in comune, soprattutto sul sistema pensierico e stimolativo perché è quello che conta di più nei momenti di difficoltà.

(dal "Glossario" di Abubakar Mukhtar, 2012)

Postfazione


AMM si presenta



L' Archivio delle memorie migranti (AMM) è un’associazione che da anni si impegna a lasciare traccia con modalità innovative dei processi migratori in corso, con l’obiettivo di favorire l’inserimento di memorie ‘altre’ nel patrimonio collettivo italiano. Alla base delle attività dell’associazione c’è l’adozione di un metodo partecipativo, fondato sulla necessità di prestare una cura particolare ai contesti in cui nascono forme di autonarrazione e alla qualità della relazione tra chi racconta e chi ascolta, fino a giungere alla mutualità di questi due ruoli.


Grazie a questa metodologia di intervento, fatta di percorsi di formazione, laboratori e seminari che hanno costituito il cuore dei progetti portati avanti da AMM – a partire dal documentario collettivo “Benvenuti in Italia” fino al film “Va’ pensiero” e al relativo kit didattico realizzato per le scuole – l’Archivio è diventato un vero e proprio spazio d’incontro per storie di vita.

Questo libro


“Incontri di storie” vuole essere un esempio di ciò che nasce dalle pratiche autonarrative che autori, ricercatori, videomaker, operatori di terreno, educatori, migranti e non svolgono nello spazio dell’archivio.
Sono testi che rispecchiano fedelmente la circolarità dei racconti e dei ricordi così come l’interscambiabilità dei ruoli io-altro: passi da diari del viaggio verso l’Italia, definizioni tratte da un glossario di un nuovo italiano, riflessioni su esperienze di ricerca, testimonianze della vita da migrante nell’Italia di oggi, stralci di discussioni e riflessioni collettive.


Il progetto "A scuola dell'altro"


Nel corso degli anni le storie condivise da chi si avvicina all’AMM si sono fatte strada nelle scuole, e così le pratiche che le hanno fatte nascere.
Oggi, con il progetto educativo "A scuola dell’altro", l’AMM propone attività laboratoriali nelle scuole primarie e secondarie che prevedono l’utilizzo a fini pedagogici dei materiali raccolti ed elaborati da chi opera nell’Archivio. Obiettivo primario di queste attività è contrastare ogni forma di discriminazione tra studenti e stimolare la riflessione su questioni di cruciale importanza per la contemporaneità: il razzismo, la lotta ai pregiudizi, il rispetto dei diritti fondamentali, la necessità che si creino ponti di dialogo tra mondi diversi.


I film di AMM


Ecco alcuni contributi audiovisivi (documentari, cortometraggi e lungometraggi) nati da progetti di AMM e realizzati da o con il contributo di filmmaker migranti.

"ASMAT- Nomi per tutte le vittime in mare" di Dagmawi Yimer


Guarda

"To whom it may concern" di Zakaria Mohamed Ali


Guarda

"Va' Pensiero, storie ambulanti" di Dagmawi Yimer


Guarda

Il progetto "#migrantes" di Luca Serasini


Guarda l'opera



Incontri di storie