4. Dolomiti 1915

Dolomiti 1915


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Dolomiti 1915



L’apertura di un fronte sulle montagne, dietro casa per le popolazioni dolomitiche, giunse pressoché inaspettata. Il 24 maggio 1915 il confine con il Regno d’Italia, pacifico da molti anni, si trasformò in un incombente pericolo. La maggioranza degli uomini validi erano già
sul fronte, in Galizia.
Alla dichiarazione di guerra, 30.000 Standschützen anziani e giovanissimi vennero inviati,
male armati, a difendere il confine della loro terra.
Comincia un dramma senza fine: Fiera di Primiero, Cortina e Livinallongo, evacuate per ragioni strategiche, vengono occupate dagli italiani. Centinaia di ladini vengono trasferiti in territorio italiano costretti ad abbandonare case e campi.
Nelle Valli di Fassa e Fiemme un po’ alla volta affluiscono le truppe dell’esercito regolare austro-ungarico, in appoggio ai volontari, e giunge anche l’Alpenkorps tedesco. La pressione italiana tarda a farsi sentire: la linea del fronte viene organizzata e tenuta.
La vita dei civili viene stravolta completamente.
Scarseggiano i viveri, coltivare i campi senza le forti braccia degli uomini diviene un problema. L’esercito, comandato in prevalenza da ufficiali di etnia tedesca, vede con diffidenza
una popolazione che parla una lingua più simile all’italiano che non al tedesco.
Vi sono però delle eccezioni. A Moena il tenente Richard Löwy, ufficiale ebreo viennese, arruolerà i ragazzi negli Standschützen, salvandoli dall’invio al fronte orientale, e organizzerà
le donne della valle in gruppi di lavoratrici retribuite contribuendo così al benessere economico della comunità. Diverrà cittadino onorario di Moena.

Battaglie in alta quota


La dichiarazione di guerra del Regno d’Italia all’Impero d’Austria Ungheria il 24 maggio del 1915, portò la prima linea a ridosso delle valli di Fassa e Fiemme.
Per il Comando Supremo dell’esercito italiano, l’importanza strategica del fronte dolomitico fu sempre marginale, gli sforzi offensivi vennero concentrati sul fronte isontino, per sfondare in quella direzione
e arrivare a Lubiana congiungendosi agli eserciti serbo e russo, così da spaccare in due la monarchia danubiana. Perciò sul fronte isontino, novanta chilometri circa, vennero dislocate 15 divisioni, mentre su
quello che andava dallo Stelvio alla Carnia, che constava di cinquecentosessanta chilometri, ve ne erano in tutto 11.
Nei primi giorni di guerra il fronte dolomitico difeso dagli austriaci era praticamente sguarnito, i comandanti italiani avrebbero dovuto attaccare immediatamente le difese austriache; invece, passato il confine, attesero più di un mese prima di iniziare le azioni offensive e fu quindi persa una grande occasione.
La strategia austriaca fu quella di ritirarsi da Fiera di Primiero per arroccarsi sul Passo Rolle e sulla catena del Lagorai; seguendo lo stesso principio venne abbandonato il Passo San Pellegrino per situare la linea
di difesa sul Passo Selle e sulle creste di Costabella.
Il primo attacco di una certa importanza da parte italiana, fu quello del 18 giugno 1915 contro le posizioni austriache del Passo Selle in val di San Pellegrino; i bersaglieri del 3 ̊ Reggimento furono veramente vicini alla vittoria ma l’attacco non ebbe esito positivo.


Negli stessi giorni gli alpini occuparono la linea Passo delle Cirelle, Cime Cadine, Cima Uomo, Forcella Ciadin. Nell’anno 1916 combattimenti importanti furono quelli che si svolsero per l’occupazione stabile della Marmolada. Nel luglio del 1916 il Gruppo Ferrari attaccò su tutta la linea del Passo San Pellegrino al Cauriòl con l’obiettivo ambizioso di conquistare la Val di Fiemme.
Il 21 luglio vennero conquistati il Passo Colbricon e Cima Stradon. Molto gravi furono le perdite italiane per la conquista dell’osservatorio di Cima Bocche che venne espugnato il 3 novembre 1916 ma perso nuovamente il 6 dello stesso mese.
Il 27 agosto 1916, proprio sul morire dell’offensiva sul Lagorai, il Battaglione Alpini Feltre prese la cima del Cauriòl che restò in mano italiana malgrado i contrattacchi austriaci che si ripeterono successivamente.
La conquista del Cauriòl era un successo ma non era di per sé sufficiente ad aprire le porte della Valle di Fiemme. Nell’autunno 1916 gli italiani riuscirono ad impossessarsi di due importanti quote del Cardinal e della Busa Alta.
La Cima Occidentale del Colbricon divenne il punto più caldo del fronte nella primavera del 1917. Nel tentativo di occuparla gli italiani fecero saltare ben tre mine che però non portarono a risultati decisivi.
Nell’ottobre del 1917 gli austro-tedeschi sfondarono il fronte italiano sull’Isonzo a Caporetto penetrando nella pianura Veneta; ciò comportò per gli italiani la necessità di abbandonare il fronte dolomitico per
non rimanere accerchiati.
Fu così che terminò la lotta su queste cime.


Carta che rappresenta il settore “Rayon 4” che comprendeva la zona di influenza della 90ª Divisione di fanteria austro-ungarica e dei Corpi d’armata 9° e 18° del Regio Esercito Italiano con le unità minori contrapposte alla data del giugno 1916.


La Marmolada - m. 3343


Per rendere più agevole e meno pericoloso l’accesso alle postazioni, ma anche per attraversare il ghiacciaio, vennero approntati numerosi ponti e passerelle per poter superare gli innumerevoli crepacci e seracchi che al tempo si irradiavano dalla zona centrale del ghiacciaio. Molte volte erano ponti che servivano per saltare i seracchi che si aprivano durante lo scavo delle gallerie, sotto la coltre di ghiaccio, in altre occasioni erano a cielo aperto.


L’uscita della galleria, denominata “U Stollen” sotto la posizione “U” sul Sasso delle Undici.
Tramite questo tunnel scavato nel ghiaccio si accedeva all’avamposto austriaco situato al centro del ghiacciaio. Sin dal luglio 1916 vennero iniziati lavori di scavo dentro il ghiacciaio per rifornire, non visti, le posizioni più avanzate. Sotto la direzione del Tenente Ing. Leo Handl, nella primavera del 1917 si iniziò la costruzione di una vera e propria “città nel ghiaccio”, con 8 chilometri di gallerie e ricoveri per più di 300 militari. Vennero previste baracche con cucine, magazzini, infermerie, centrali telefoniche ed elettriche per illuminare le gallerie e le postazioni più elevate. Vi si accedeva da una galleria nel ghiacciaio posta a m.1400 collegata con il nodo di rifornimento del Gran Poz.



Targa in legno appartenuta al tenente Leo Handl, ideatore e progettista della Città di Ghiaccio sulla Marmolada ed alcuni fogli estratti dai suoi progetti.

Cordino da valanga e sacco a terra in juta provenienti dal ghiacciaio.

Soprascarpa italiano anti-congelamento ad uso dei militari di vedetta.

Confezionato in tela di cotone, solitamente imbottita con pelliccia di capra e suola in legno con chiodi anti-scivolo.

Manuale di servizio destinato alle truppe alpine austriache.

Occhiali da ghiacciaio austriaci.

Vivat - fascia in seta di propaganda per la difesa delle Alpi.


Baraccamento al passo Fedaia, collocato in posizione defilata approssimativamente dove oggi vi è l’invaso formato dalla diga.
La fotografia ritrae una spontanea immagine di vita quotidiana. Si tratta ovviamente di una giornata di pausa durante i combattimenti ed inoltre il clima appare particolarmente clemente.


Veduta aerea, ottenuta nella ricognizione austriaca il 25 aprile del 1917, della Vedretta della Marmolada con le posizioni italiane, segnate in rosso, a difesa del Vallon d’Antermoia.


Immagine primaverile della posizione “D” sul Sasso delle Dodici. Sulla cresta che si staglia contro il cielo correva la prima linea austriaca dominante la Forcella a “Vu”. è da notare, sulla parete a sinistra, il vecchio arrivo dell’ultimo tronco della teleferica in fase di smantellamento. Generalmente al piano inferiore delle baracche vi erano gli alloggiamenti della truppa, al piano superiore, al sole e meno soggetti ad essere ricoperte dalle nevicate, gli alloggi degli ufficiali. Quando era possibile le baracche erano ben costruite, avevano vetri alle finestre e porte doppie per tenere lontano il freddo. Sono visibili i fili dei collegamenti elettrici e telefonici.



Siegfrid Kolisch fu comandante della Batteria n. 21 collocata a Penia e sono qui esposti i suoi cimeli (l’uniforme originale, completa di binocolo che è esposta nel gruppo delle uniformi e visibile nella galleria di immagini nel booklet “Uomini Contro”).


Il modellino rappresenta il mortaio Skoda-Möser da 30,5 cm, mod. 1911 e le immagini, scattate dallo stesso Kolisch, illustrano le fasi di trasporto e montaggio del pezzo d’artiglieria che sparava sulle linee italiane della Marmolada a circa 9,6 km di distanza un proiettile da 300 kg.

A fianco un suo schizzo originale della cima del Cauriòl, un sistema di puntamento per cannone e alcuni goniometri.




Una scheggia del proiettile sparato dal mortaio Skoda-Möser posizionato a Penia e rinvenuta sulla Cima di Costabella da Livio Defrancesco, presidente dell’associazione storica “Sul fronte dei Ricordi”.


Il manifesto per la raccolta del metallo a fini bellici, che utilizza l’immagine dello stesso pezzo d’artiglieria.




Perdute oscurità, ferme chiarezze
di terra e cielo venuti a cimento,
gli abissi che si alternano alle altezze
la vertigine dando e il rapimento:
in queste rupi dalle enormi asprezze
i profeti del vecchio testamento
mostrano le terribili fattezze,
ed hanno gesti di sbigottimento.
Spiegato è il libro delle nevi eterne,
pagina bianca sol dai venti letta
che passando alzan fumo di lucerne;
e la Sibilla una sentenza detta
nella sonorità delle caverne
per ogni fronte dalle bende stretta.


Carlo Delcroix,
Val Cordevole - Poesie. Cappelli ed., 1968.
L’autore, Ufficiale del 3° Reggimento bersaglieri, comandato in regione Marmolada, venne gravemente ferito nel corso del 1917

La Costabella - m. 2762


In alcuni tratti del fronte le postazioni erano a volte molto distanti e per avere una reale mappatura del terreno erano necessarie ore di rilevamenti effettuati con strumenti ottici di precisione. Dalla Cima Campagnaccia sulla Costabella questo militare osserva i movimenti italiani nella Valle di San Pellegrino a pochi chilometri da Moena.




Era molto importante rifornire durante l’estate le postazioni più alte per potere in questo modo disporre di scorte quando l’inverno, con la sua immensa coltre nevosa, avrebbe reso difficoltosi i collegamenti col fondovalle. Sulla Costabella due Standschützen del battaglione Dornbirn stanno approntando strutture di rafforzamento e di alloggio.
Sullo sfondo il gruppo del Sassolungo e, sulla destra, la Crepa Neigra.



Postazione austriaca “Detz” sulla Cima di Costabella, dove alcuni militari sono impegnati in lavori per rendere più agevole la vita a quelle quote.
Sulla destra è visibile il muraglione costruito per difendersi dai colpi dell’artiglieria italiana, mentre sulla sinistra si può notare l’arrivo della teleferica che proveniva dalla valle di San Nicolò, centro nevralgico per lo smistamento dei rifornimenti del fronte della Costabella.


Baracca italiana sulla Sella di Costabella abbarbicata sulle pendici di Cima Uomo a m. 3010 in Val San Pellegrino.
Durante l’inverno causa l’imponente coltre nevosa, era assi difficile poter raggiungere e rifornire questi piccoli posti di osservazione: il pericolo dato dalle slavine, smosse per cause naturali o dalle cannonate, era sempre in agguato.


Cima Bocche - m. 2745


Postazione austriaca “Laudon” sul declivio di Bocche, protetta da una fitta selva di reticolati, che si affaccia verso le Pale di San Martino. Il fronte di Bocche fu teatro di reiterati assalti da parte della Brigata Tevere durante l’estate del 1916. In sei mesi, durante le operazioni per la conquista del saliente e del promontorio roccioso su cui era l’osservatorio (espugnato il 3 novembre 1916 ma perso nuovamente il 6 dello stesso mese), la Brigata perse tra morti, feriti e dispersi, più di 2.500 uomini.




Il panorama della splendida catena dei Lagorai, con il Colbricon sulla sinistra, visti da una postazione austriaca. Il reticolato immediatamente avanti le prime linee permetteva di avere una barriera praticamente
insormontabile da parte dell’assalitore.
Granate di artiglieria, tubi di gelatina posizionati da ardite pattuglie, nulla potevano contro qualcosa che era impossibile spezzare: il filo si rompeva, ma contemporaneamente si storceva, si aggrovigliava, si rivoltava su se stesso avviluppandosi al terreno e rinsaldandosi creava una nuova barriera.


Lungo la Val Travignolo, così come sopra Moena, in località Someda, resistevano ancora delle costruzioni fortificate, retaggio di una pianificazione difensiva caratteristica della fine dell’800.
Il Forte Dossaccio, iniziato nel luglio del 1890, venne disarmato nell’estate del 1915 e le sue batterie poste in posizione più defilata ai tiri dell’artiglieria italiana. Le bocche da fuoco furono sostituite con tronchi d’albero verniciati di nero per simularne ancora la presenza.
Nondimeno fece in tempo il 18 giugno 1915 a bombardare colonne di fanteria italiane che si stavano muovendo verso Campo Juribrutto. Nell’immagine, le artiglierie sono oramai state sostituite così come le cupole metalliche con altre in calcestruzzo.



Durante i rari periodi di riposo, una volta discesi nel vicino fondovalle
e ritempratisi dalle fatiche, lo spirito sentiva a volte il bisogno di fissare su carta immagini tanto presenti nella diuturna quotidianità.
Ed ecco un esempio scaturito dalla matita di un semplice Standschütze di Moena, Giovanni Volcan, che il 3 giugno del 1916 ritrasse la sua baracca posta sulle pendici del Gronton lungo l’aspro fronte di Cima Bocche.

Il Colbricon - m. 2602
Buse dell’oro - m. 2326


Inverno 1916. Dalla trincea austriaca sul Colbricon Piccolo si vede la Cima Occidentale, m. 2608. A sinistra della cima, i tre denti. Il primo e il secondo dente da sinistra erano occupati dagli avamposti italiani, dopo che il 3 novembre 1916 la cima era stata riconquistata dagli austriaci. È proprio da qui che partì lo scavo della galleria da mina, che gli italiani fecero brillare sotto il terzo dente il 12 aprile 1917, polverizzando i diciotto uomini del presidio ed un ufficiale, non riuscendo però ad occupare la posizione.
Sulla sinistra si vede il fianco della Cima Orientale del Colbricon, m. 2604, occupata dagli italiani del LX Battaglione del 13° Reggimento Bersaglieri il 21 luglio 1916. Questo ultimo reggimento con artiglieria e il 23° e 49° Fanteria formavano il Nucleo Ferrari.




La vita e la morte sono accomunate dalla presenza di alcune baracche utilizzate per il ricovero dei militari e, immediatamente nei pressi, il cimitero austriaco alle Buse dell’Oro.
Questo raccoglieva i caduti del III Reggimento Kaiserschützen, che aveva una caserma a Predazzo, dell’84°, 49° e del 12° Reggimento di Fanteria. Le battaglie per la conquista delle Buse dell’Oro videro un notevole sforzo offensivo da parte degli italiani, che, non ottenendo esiti positivi, nel luglio del 1917 iniziarono dei lavori di mina per far saltare le postazioni austriache. Il 10 ottobre 1917 avvenne lo scoppio, ma in pratica non vi fu alcun effetto sulle truppe del presidio austriaco, che reagì con un acceso fuoco di fucileria e mitragliatrici.



Interessantissima immagine della prima linea di quota 2187 verso la Cupola alberata.
Le postazioni italiane e austriache in questo settore distavano non più di 15 metri l’una dalle altre.
Nonostante la prossimità, la vita scorre senza apparenti problemi: si fuma, ci si riposa, ma anche si scruta da strette feritoie.
Un gruppo di ufficiali parla al telefono e - in primo piano sulla destra - al riparo di un fragile muretto a secco, qualcuno controlla la propria biancheria sicuramente infestata da fastidiosissimi pidocchi.


Il raffronto con la fotografia attuale è di stridente distacco.


Il Cauriòl - m. 2494


La cima del Monte Cauriòl, che si erge monumentale nella foto, venne espugnata alle 19.50 del 27 agosto 1916 da due plotoni della 65ª e 66ª compagnia del battaglione Feltre del 7° Reggimento alpini. Dopo la sua conquista gli italiani iniziarono i preparativi per il possesso della cresta che lo separa dal Cardinal. All’alba del 15 settembre 1916, reparti del Monte Rosa appoggiati a distanza ravvicinata da un cannoncino della 5ª Batteria di Artiglieria da Montagna in posizione sul costone del Cauriòl, riuscirono ad occupare la selletta tra il Cauriòl stesso e il Cardinal difesa dai Kaiserschützen del III reggimento. Da Caoria, immediata retrovia italiana, si poteva avere un’ottima visuale della cima del Monte: gli austriaci potevano quindi controllare le vie di accesso italiane, ma dopo il 27 agosto gli italiani poterono fare lo stesso con le vie di rifornimento austriache in Val di Fiemme, al punto che la ferrovia a scartamento ridotto, che sarebbe arrivata a Predazzo nel 1918, venne spostata sulla sinistra orografica del torrente Avisio. All’alba del 3 settembre gli Austriaci, approfittando del recente cambio tra il Battaglione Feltre ed il Val Brenta, attaccarono la cima e la selletta sud ovest del Cauriòl. Costò la vita a 49 soldati e ci furono 203 feriti. Così si impedì la rioccupazione del Cauriòl.






“... nulla traspare, niente che possa solo far immaginare il tremendo sacrificio di quegli uomini lanciati all’assalto di un miraggio
più che di un obiettivo militare. Canaloni impervi, costoni pressoché verticali di nuda roccia; completamente allo scoperto e sopra, sulla cima, in posizione dominante, gli austriaci annidati fra le pietre, in ripari sì improvvisati ma considerati, per l’asprezza del terreno, inespugnabili.
Mille metri di dislivello percorsi di slancio, col cuore in gola, con una sola immagine davanti agli occhi, l’arcigno oscuro Dente che si erge come un Moloch assetato di sangue, contro il quale nulla sembra potere la fragile vita umana. Ma l’inesausto e mai domo senso del dovere che da sempre accompagna il soldato italiano in simili frangenti ebbe ragione dell’inaccessibile meta, facendo così assurgere il valore
degli uomini del Feltre ben oltre la vetta del Monte Cauriòl ...”


Tenente Giuseppe Caimi,
Battaglione Feltre, colpito a morte il 14 dicembre 1917 sul Monte Valderoa

L’assalto


Dopo i terribili assalti e contrassalti sostenuti sul fronte galiziano i pochi veterani ritornati acquisirono una notevolissima esperienza.
Lo stesso si può dire ovviamente per i quadri superiori, che impararono a meglio sfruttare la manovra e l’impiego delle masse subalterne.
L’anno trascorso sul fronte orientale affinò anche vecchie e nuove idee che si tradussero in migliori condizioni di vita per il soldato.
La creazione di nuove divise dai colori più simili al terreno, tute mimetiche bianche per l’inverno, indumenti protettivi, attrezzature specifiche, si svilupparono molto rapidamente. Il soldato moriva lo stesso, ma si era capita - forse tardi - l’importanza del fattore uomo, impossibile da sostituire.






“Gli uomini dapprima abbrutiti dal cannone, moriranno squarciati dalla mitraglia. A migliaia decine di migliaia. Occuperemo due o trecento metri di terreno roccioso. Poi la battaglia riprenderà.
E questa stupida bestia che è l’uomo, sferzata, urla di dolore e va alla morte.”


Attilio Frescura,
Diario di un imboscato, Cappelli, Bologna, 1930



“La vita di trincea, anche se è dura, è un’inezia di fronte a un assalto.
Il dramma della guerra è l’assalto.
La morte è un avvenimento normale e si muore senza spavento.
Ma la coscienza della morte, la certezza della morte inevitabile, rende tragiche le ore che la precedono.”


E. Lussu,
Un anno sull’Altipiano, Einaudi, 1945

I feriti


I rincalzi, destinati a prendere il posto dei loro compagni fuori combattimento, sovente erano lasciati insieme ai feriti che provenivano dalle prime linee.
Questo certamente non aiutava il morale, raffigurando immediatamente quello che molto probabilmente li aspettava una volta al loro posto di combattimento.
La gestione dei feriti era assai problematica: vennero approntati mezzi fluviali, treni attrezzati, ambulanze chirurgiche, teleferiche, barelle smontabili per trincee e speciali barelle su pattini per le operazioni in zone montane.
Furono poi istituiti i cosiddetti posti di corrispondenza dove il personale veniva addestrato a conoscere ogni anfratto del territorio a loro assegnato per ridurre al minimo il disagio del ferito.
Anche ambulanze e lettighe furono sempre più affinate meccanicamente per aumentare almeno il comfort a persone già straziate.
Dalle poche sezioni di sanità al seguito delle truppe operanti si passò nel 1918 ai 100.000 posti letto in prima linea, ed anche lo sgombero di ammalati e feriti dalla zona di guerra verso il Paese crebbe dagli 81.000 del 1915 ai 334.000 del 1918.





“Un soldato quando è inebetito dal cannone, dopo essere stato fermo al suo posto da cui, vivo, 'non può muoversi', quando è ferito, maciullato, morente, ripatisce il suo martirio.
Sotto la violenza temporale è caricato su una barella e giù, per ore, attraverso una strada mulattiera su cui i muli si rifiutano. E i portatori sdrucciolano, inceppano, cadono. E il ferito urla con tutta la sua carne straziata.”


Attilio Frescura,
Diario di un imboscato,
Cappelli, Bologna, 1930



I ricoveri


Uno dei problemi più importanti in prima linea, dopo l’approvvigionamento di cibo e munizioni, fu quello della sistemazione delle truppe. Con il sopraggiungere della brutta stagione – soprattutto alle alte quote – il problema della sistemazione divenne prioritario ed impellente.
I militari erano dotati individualmente di teli tenda che uniti tra loro formavano delle piccole tende da quattro sorrette da elementi di paleria componibili, ma se questo era sufficiente per un breve periodo ed in pianura non lo era certo per una guerra di posizione.
Le baracchine prefabbricate modello Raffa, più delle cucce per cani che altro, erano poche e maldistribuite.
Si iniziò quindi a costruire dove possibile baracchini e baracche con i materiali più disparati, in prima linea con quello che si trovava e con quel poco che giungeva tramite il servizio logistico del Genio, nelle retrovie si arrivò invece anche a villaggi interi dotati di servizi vari, cinema e teatri e in certi casi di sontuose costruzioni destinate, quando non era possibile requisire ville civili, agli alti gradi dell’esercito. In ogni caso il sapersi arrangiare tipico dei fanti-contadini su tutti i fronti rese queste casupole il più accoglienti possibile cercando di ricreare, anche se in uno spazio limitatissimo, il tepore della casa lontana.



14.9.1916:
“La mia baracca, un povero rifugio da mendicante, resiste all’acqua ormai ed al vento, i miei soldati l’hanno rattoppata: accovacciata tra le rocce circondata da altri ricoveri più meschini, ha una certa aria di padrona e di signora.
Vi dormo benissimo, avvolto nelle coperti di lana come un uomo del nord, pieno di sonno e di freddo.”


Ten. Filippo Guerrieri,
Lettere dalla trincea,
Manfrini, Trento, 1969

La fatica


La guerra non era solo fatta da assalti, bombardamenti, ritirate, paura
o splendide e vittoriose avanzate, ma anche da un qualcosa di più continuo, diuturno e rassegnato: la fatica.
Il lavoro giornaliero era insistente, senza tregua; la scarsa alimentazione poi non favoriva certo il vigore necessario alla costruzione di sentieri, trincee, postazioni in punti spaventosi.
Il soldato – quasi sempre un contadino – era però abituato a queste fatiche, per cui accettò questo pericoloso prolungamento della vita civile con una sorta di pacata rassegnazione.
Le immagini d’epoca ci aiutano a meglio comprendere l’incessante lavoro giornaliero: alpini in maniche di camicia mentre sul Lagorai attrezzano una postazione a strapiombo sulla valle sottostante mentre dall’altro lato del fronte una torma di artiglieri austriaci e prigionieri russi trascinano un pezzo di artiglieria sulla strada che si arrocca verso il Passo Fedaia.






“1 luglio 1915. Traino di cannoni.
Stamani verso le quattro, una compagnia di fanteria era già pronta pel traino.
Si applicano le funi, si dividono gli uomini in squadre, e si comincia la salita: i fantaccini alle funi, gli artiglieri alle ruote e alla coda.
Io manovro la coda del cassone del mio pezzo, il terzo.
La strada è pessima, si affonda nel fango fino a mezza gamba.
La manovra della coda è difficilissima causa i sassi che impediscono di girarla.
Si suda come cani, le braccia fanno male.”


“Il Giornale” diario di guerra
di Alessandro Suckert



“Quando vedo la corvée che scende da San Floriano carica di tavole, e questi piccoli eroici fanti, che cadono, si levano, bestemmiano e pur proseguono con due tavole sulle spalle o con un rotolo di filo spinoso portato in coppie, comprendo cosa sia la fatica, il biblico sudore della fronte...”


Gualtiero Castellini,
Diario di Gualtiero Castellini,
Milano, 1919

La teleferica


Durante la guerra il funzionamento dei trasporti richiese l’impiego
di altri mezzi non previsti dalle disposizioni regolamentari: slitte, locomobili, galeotte, décauvilles e teleferiche più adatte alle zone montane, ma frequentemente utilizzate anche dove i dislivelli non erano particolarmente impegnativi e le strade o i passaggi potevano essere di difficile realizzazione. Naturalmente era necessario anche creare una valida rete di comunicazione, e da parte italiana, solo di camionabili in settori operativi di guerra al 1918, ne vennero create ben 3.800 chilometri.
Complessivamente sull’intero fronte italiano gli austriaci realizzarono più di 400 teleferiche con una lunghezza complessiva di circa 700 chilometri, gli italiani invece ne costruirono circa 2.100 tra teleferiche, piani inclinati e telefori a mano per uno sviluppo di 2.300 chilometri. Una delle differenze principali fu che gli italiani preferirono lo sviluppo di piccoli impianti agevolmente trasportabili e modificabili anche una volta installati per sopperire a nuove esigenze, mentre gli austriaci preferirono quelle fisse e a lunga campata.




Inverno 1916 - Estate 1917. In questa bella serie di immagini della Costabella è rappresentata una delle funicolari tipo impiegate dall’esercito austriaco sul fronte dolomitico. Le aeree altezze dei piloni di sostegno arrivavano a colmare vuoti anche di parecchie centinaia di metri, invalicabili con l’ausilio delle normali corvée. Nella fattispecie questo impianto collegava la cima di Costabella con la stazione a valle della Val San Nicolò. Dato il lungo tratto era prevista una stazione intermedia in località Ciamorciaa dove i materiali venivano scaricati e ricollocati sul carrello in partenza per la cima. Questi carrelli potevano essere di vari tipi: in legno o metallo ma solitamente erano in lamiera stampata, con sponde poco alte e basculanti, per poter caricare agevolmente i materiali ma anche i feriti, abbreviando loro il penoso tragitto di ritorno verso valle. Sempre sul Costabella, un differente tipo di carrello utilizzato per il trasporto del legname per la costruzione di baracche e il rinforzo delle postazioni d’alta quota.
A volte questi impianti venivano impiegati dagli ufficiali per risalire più velocemente le cime, anche se la pratica, oltre che vietata dai regolamenti di esercizio, non era immune da pericoli a volte mortali.





“Era molto scuro e per giunta s’era levata una bufera su in alto, il cui ululato scendeva sinistramente sino a noi. Battemmo i tre colpi regolamentari alla fune e mi sedetti nel carrello della teleferica tenendo la schiena rivolta verso il Serauta, nella cui direzione il carrello
sarebbe salito. (…)
Alla giusta metà avremmo dovuto incontrarci col carrello discendente e, dato il pauroso sbandamento del nostro a causa della bufera,
v’era il serio pericolo di un incontro, e quindi di un ribaltamento mortale... Ad un tratto udii sopra il capo un rumore sordo e sinistramente stridente; istintivamente guardai in su, come potevo, e vidi che la corda traente del carrello discendente, spostata dal vento, era venuta ad impigliarsi nella carrucola del nostro. (…)
Io non compresi bene quello che stesse per succedere, perché non vedevo nulla.
Istintivamente strinsi la mano sinistra al parapetto e, alzata la destra, riuscii ad afferrare la traente impigliata nella carrucola ed a spingerla
in fuori, verso destra, più che potei… Mentre facevo questo movimento, per il quale dovetti preoccuparmi anche di non cadere fuori dal carrello ondeggiante, udii alle mie spalle il rumore caratteristico, ed in quel momento quanto mai sinistro, del carrello discendente, che s’ingigantiva sempre più, ed ebbi per un istante la sensazione che esso dovesse piombarmi nella schiena, tanto vicino ed immediato era il suo rumore.”


Tratta Ciamp D’Arei-Serauta
Tullio Minghetti, I figli dei Monti Pallidi - Vita di guerra di un irredento. Ed. della Legione Trentina.
Temi, Tip. Ed. Mutilati e Invalidi, 1940

La vita quotidiana




La vita continuava, sempre ed in ogni caso.
La vita dei soldati non era fatta di soli assalti e disperate difese, anzi forse i problemi maggiori erano dati dalla stanchezza, dall’umidità, dalla mancanza di sonno, dall’avere sempre o troppo caldo o troppo freddo, dalla ricerca di materiali che potessero rendere il giaciglio più confortevole, dal cibo sempre insufficiente, ma più in generale dalla privazione di quelle piccole, povere cose che durante la vita civile portavano un po’ di conforto.
Oltretutto la lunga permanenza nelle trincee obbligava a condizioni igieniche spesso assai precarie: topi, pidocchi, cimici erano alcuni dei molti flagelli che accompagnavano la vita del soldato. Ci si dedicava all’igiene personale utilizzando spesso l’acqua stagnante recuperata nei crateri delle esplosioni. Oppure si cercava di eliminare i molti parassiti con la disinfestazione manuale degli indumenti.
A volte però c’erano anche rari momenti di calma e rilassatezza nei quali, soprattutto attraverso il canto, ci si struggeva nel ricordo degli affetti lontani.

Pause



Notizie fresche! Generalmente di un mese prima... Anche la lettura, per quei pochi militari che sapevano leggere e scrivere, era un momento di distacco dai pensieri quotidiani. Durante il periodo bellico sorsero nei due schieramenti, per iniziativa di editori veri e propri, ma anche stampati dai comandi, una moltitudine di giornali di trincea che trattavano degli argomenti più disparati, infarciti molto spesso da una propaganda più o meno strisciante.


Estate 1917, Quota 2318 del Cardinal, con il barbiere all’opera in trincea. Momenti di calma nei quali un taglio di capelli con tanto di telo fiorato riportava per un istante alla lontana vita civile.


Nei momenti di riposo, una volta ricevuto il cambio dalla prima linea, ci si poteva ritrovare allegramente a bere anche più di un buon bicchiere di vino. Nello sguardo però un velo di apatica tristezza al pensiero sempre incombente del ritorno al fronte.




“Die Latrine” sul Colbricon…


Il fumo


Uno dei pochi piaceri che i soldati si potevano concedere nelle pause era il fumo. Le pipe tirolesi esposte appartengono a una grande tradizione manifatturiera e militare: i soldati vi facevano scrivere il proprio nome, il corpo di appartenenza e spesso anche delle poesie o dei motti ironici, politici o drammatici.
Erano simbolo di orgoglio di appartenenza all’Imperiale e Regio Esercito.


Si notano pipe scritte sia in tedesco che in italiano, a dimostrazione del plurilinguismo dell’Impero.
In esposizione pipe appartenute ai soldati e ai cacciatori imperiali, le rarissime pipe dei battaglioni Standschützen e un esemplare del Battaglione Landschützen di Predazzo.




“... Lo credo anch’io. Ci preferiscono affamati, assetati e disperati. Così, non ci fanno desiderare la vita.
Quanto più miserabili siamo, meglio è per loro. Così, per noi è lo stesso, che siamo morti o che siamo vivi…”


E. Lussu,
Un anno sull’Altipiano,
Einaudi, 1945.



Gli abbiamo trovato una cartolina, indosso, per la famiglia. V’era scritto: «Semo su un monte cossì alti che ad alsar il braccio se toca il cielo.»
E più sotto: «Ti dirò che qui semo in mezo ai peoci e no pochi ma tanti e sono grossi bianchi e colla crose su la schiena.»


P. Monelli,
Le Scarpe al Sole,
Treves, Milano 1928

La fame


Nelle società civili che caratterizzavano il primo scorcio del ’900 la struttura sociale era ancora per la gran parte di tipo contadino-patriarcale.
L’industria era in pieno sviluppo, ma non poteva ancora competere con l’estensività delle produzioni agricole: i contadini, tranne rari casi, avevano di che sfamare sé e la propria famiglia.
Durante la guerra le cose cambiarono: vi fu un massa enorme di combattenti – sottratti alle campagne – che andavano nutriti.
L’organizzazione logistica di tutti gli eserciti non era ancora sviluppata e soprattutto non era preparata ad alimentare un così gran numero di armati. La fame in trincea divenne un’ossessione ed un pensiero fisso per tutti, a volte anche più sentito delle granate stesse. Dopo un assalto, la prima cosa era quella di frugare sui morti o nelle trincee appena conquistate alla disperata ricerca di cibo.



Soldato austro-ungarico in una classica mansione che in molti può far riaffiorare i ricordi del passato servizio militare: pelare le patate. In questo caso un cestino di piccoli tuberi che probabilmente avrà dovuto sfamare parecchie persone.


Le immagini sul cibo che ci sono state tramandate parlano sempre di abbondanza e di dovizia, quasi di un opulente spreco: il significato ci appare chiaro, si cerca di esorcizzare con le immagini quello che realmente manca.


Militari austriaci mentre ricevono la loro razione di pane in un campo di prigionia.
A volte la prigionia si rivelò come l’unico modo per non morire di fame, ma all’opposto - specialmente in Austria e Russia, dove scarseggiava il cibo - l’essere prigionieri poteva significare sicura morte.



1.7.1916:
“Mangio con avidità quel po’ di roba che ogni tanto arriva: se nulla giunge si cerca, si fruga negli zaini e si trova pur sempre una scatoletta
di carne in conserva, ottimo ripiego al pranzo non venuto, alla fame atrocissima”.


Ten. Filippo Guerrieri,
Lettere dalla trincea,
Manfrini, Trento, 1969

La natura


La natura era ovunque presente e l’uomo, nonostante il suo apparente vigore, era in totale balìa delle forze che lo circondavano: valanghe, fulmini, tormente, frane, piene improvvise erano solo alcune delle armi che potevano essere messe a disposizione di quella potenza ineguagliabile.
Ma dall’altra parte vi era quanto di più rasserenante potesse esistere per degli uomini provati dalle fatiche della guerra: visioni spettacolari, cinguettii, tramonti, l’immensità delle acque… La terra poi avvolgeva protettrice il fragile corpo del soldato fornendo difesa in trincea, ma anche - non sempre - in un ultimo definitivo riposo. Sul fronte dolomitico si abbatterono numerosissime valanghe che mieterono migliaia di morti. Una tra le più spaventose fu quella del 13 dicembre 1916 nel massiccio della Marmolada in località “Gran Poz”, dove 200.000 tonnellate di neve seppellirono 230 Kaiserschützen e 102 portatori bosniaci. Solo 51 vennero tratti in salvo. Gli ultimi riaffiorarono in fondo alla valle nel luglio 1917.




La natura può anche essere estremamente dura: in una manciata di secondi interi villaggi possono essere spazzati via da una gigantesca mano che sotto forma di valanga travolge e tutto distrugge, come nella conca di Fuchiade sopra il Passo di San Pellegrino dove il 9 marzo del 1916 perirono 60 alpini del Battaglione Val Cordevole.


Una sentinella austriaca sulla Costabella vigila, in un’atmosfera soffusamente fiabesca, verso le postazioni italiane abbarbicate attorno al gruppo delle Pale di San Martino.




9 maggio 1917:
“Al ritorno, trovata la notizia che un giovine maggiore di fanteria, quello ch’io vidi con gli skiatori pochi giorni fa, è stato morso da una vipera. Trasportato in barella qui al nostro Gruppo, Cosentino l’ha trovato gravissimo, già in deliquio. L’hanno inviato giù in fretta all’ospedale. Morirà.”

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23 marzo 1917:
“Come aspra quella salita sul ghiaccio, e come dolci quelle due muraglie bianche! S’è attraversato tutto un bosco di grandi abeti: di quelli ch’io già conoscevo benissimo, per averli visti nei libri delle fate, e nelle vetrine dei pasticcieri.
La neve pare veramente panna montata, in quelle sue masse e distese enormi, immacolate; e sui rami pare zucchero, pare farina, pare bambagia; è golosa a guardarsi, è voluttuosa a calcarsi; dà la disperazione insoddisfatta delle cose infinitamente pure che si vorrebbero godere, possedere, e non c’è modo.”

Regione Monte Mezza (Valsugana),
Silvio d’Amico, La vigilia di Caporetto-Diario di guerra,
Giunti 1996

La religione



La vita al fronte costrinse gli uomini a convivere continuamente con la presenza della morte. Improvvisamente in un qualsiasi momento un proiettile, una scheggia, un’esplosione accidentale di granata avrebbero potuto spegnere la vita. Era naturale, quindi, che l’uomo si aggrappasse a qualsiasi cosa, come fedele convinto, ma anche come vittima della paura di fronte ad un pericolo reale.
Altri di fonte all’orrore quotidiano persero completamente la fede.
Nel 1866 fu decisa la soppressione dei Cappellani militari a causa dell’esteso contrasto tra Stato e Chiesa. Il Generale Cadorna, con una circolare del 12 aprile 1915 ripristinò l’assistenza religiosa con l’assegnazione di un cappellano ad ogni reggimento.
Oltre 2.200 cappellani vennero militarizzati con il grado di ufficiali assimilati, a cui si aggiunsero anche semplici preti e chierici arruolati nei normali reparti operativi. In tutto perciò le presenze religiose sul fronte arrivarono a toccare circa 20.000 uomini.


La messa al campo italiano, un momento di raccoglimento e rasserenamento in previsione di un futuro ancora poco chiaro, ma sicuramente foriero di sciagura.


Canazei austriaca: cambiano le uniformi ma il significato del raccoglimento spirituale resta immutato. Onorano la cerimonia le bandiere Ladina e dei Veterani Fassani.



Ma la Chiesa, intesa nel senso più ampio possibile del termine, era sempre pronta a dare ristoro agli uomini segnati dalla guerra.
In questa bell’immagine, un gruppo di malconci soldati dell’Impero si riposa sulla paglia gettata parsimoniosamente sul pavimento della navata centrale di una qualsiasi chiesa lungo il fronte della guerra mondiale.



15.7.1917:
“Sacerdote e altare collocati in vetta ad un piccolo poggio spiccavano distinti all’orizzonte.
Ufficiali e truppa tacevano commossi.
Lo osservavo e meditavo, e, a mano a mano che procedeva la sacra funzione, sentivo penetrarmi l’anima di una commozione, che, insinuandosi a poco a poco senza che potessi accorgermi del suo graduale aumentare, mi pervase al punto che
non potevo trattenere le lagrime”.


Niccolò Bresciani, nato a Lucera (Tn), morto sul Monte Zomo il 17 novembre 1917.
In: Adolfo Omodeo, Momenti della vita di guerra,
Einaudi, 1968

I Ladini nella Grande Guerra


Allo scoppio del conflitto nel 1914 l’atteggiamento della maggioranza della popolazione ladina riguardo all’entrata in guerra dell’Austria Ungheria può essere descritta come di rassegnata accettazione;
per un buon suddito tirolese obbedire agli ordini del Sovrano era un dovere civile ed una necessità. La lontana Russia non era di certo percepita come un nemico.
I richiamati partirono in massa, molti si guadagnarono delle medaglie sul campo, altri furono fatti prigionieri, pochissimi tornarono vivi.
Con la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria, il 24 maggio 1915, i ladini si ritrovano le truppe italiane alle porte, con il fronte a pochi chilometri dalle proprie case. Alcuni paesi vengono evacuati, perché minacciati dall’artiglieria.
Molti civili tornano però già dopo un mese.
Si crea una situazione molto particolare: gli uomini delle valli dolomitiche combattono realmente per difendere le loro case, le loro famiglie, e ciò avviene con totale abnegazione soprattutto nei primi due anni di guerra.


La politica imperialistica del potere civile e militare fece scemare poco alla volta il patriottismo dei ladini e dei trentini trasformandolo in una sottomessa apatia.
I civili sospetti di irredentismo furono arrestati ed inviati in campi
di internamento, spesso senza reali motivazioni.
I soldati di lingua italiana e ladina vennero guardati con sospetto
e spesso maltrattati dagli ufficiali; la guerra e il regime di intolleranza instaurato da Francesco Ferdinando minarono il morale della popolazione e delle truppe, sulla cui fedeltà si era sempre potuto contare.
La fame e gli stenti degli ultimi due anni di guerra si aggiunsero a questi patimenti.
I confini tirolesi vennero comunque difesi e preservati fino al giorno della capitolazione nel novembre 1918. L’arrivo della pace, anche se sotto la nuova bandiera italiana, fu salutato come un inderogabile, necessario passo verso la vita.

I civili e la guerra


Moena. Il nuovo Imperatore Carlo I d’Asburgo, si intrattiene con la popolazione e conversa con i civili.
Il prestigio e il fascino della casa imperiale fortemente radicato nelle popolazioni tirolesi si percepisce dalla semplicità di questa immagine. Malgrado la guerra, i maltrattamenti e le vessazioni nazionalistiche nei confronti della comunità ladina, da parte degli ufficiali di lingua tedesca, avessero minato lo storico patriottismo dei tirolesi, l’accoglienza per il successore di Franz Josef fu calorosa e sincera.
Nella foto si vede anche il Postmeister Michele Croce decorato con due medaglie al valore come Kaiserjäger sul campo di battaglia di Custoza nel 1866.




La lavanderia militare di Moena che venne fatta funzionare con il lavoro retribuito delle donne del paese.
Venivano qui convogliati gli indumenti cambiati ai combattenti. Insieme a questa attività, venivano affidati alle donne della valle lavori sartoriali e artigianali di vario tipo. Questo permise alla popolazione femminile locale di guadagnare un salario. In assenza dei maschi, arruolati dai 16 alla mezza età, il sistema di lavoro, organizzato molto bene dal tenente Richard Löwy, permise di mantenere un tenore di vita migliore di quello bassissimo delle popolazioni civili dell’Impero.



Gries – Canazei. A ridosso del fronte, nei paesi, i soldati austriaci scendevano a trovare le proprie famiglie o a riposare.
Spesso durante queste pause i soldati, alloggiati in case e fienili, aiutavano i locali nei lavori agricoli. Le donne ladine sono vestite con gli abiti tradizionali. Una prepara il burro e l’altra sta filando.
Ma una cosa ancora di più ci colpisce: il militare austriaco in piedi in secondo piano, posa la mano in modo fraterno, sulla spalla del prigioniero russo che sta seduto sulla botte, quasi come un membro della famiglia.


Moena, ponte sull’Avisio. Un folto gruppo di prigionieri russi lavora sotto la supervisione dei militari austriaci.
È notevole la presenza di un ufficiale tedesco dell’Alpenkorps, in piedi a sinistra. I tedeschi venuti in aiuto dei tirolesi nei primi mesi del 1915 furono un’importante presenza per il loro supporto agli Standschützen fino all’arrivo dei corpi rimpatriati con urgenza dal fronte galiziano, in seguito all’improvvisa dichiarazione di guerra del Regno d’Italia all’Austria il 24 maggio 1915.




3 settembre 1915:
“Mio Dio, Mio Dio, che abbiamo fatto
noi per meritarci un tale castigo? …
Mia madre, mia madre, ch’è una santa…
Sia fatta la tua volontà o Signore
adesso e sempre; benediciamo la tua
mano onnipotente che ci colpisce…
Povero Battistino, avresti mai pensato
di dover perire lontano dalla famiglia,
dalla tua amata Moena, in questa
crudele e disastrosa guerra
combattendo per la patria…
Questa guerra che sparge tanto sangue,
tante e tante lagrime, che fa delle genti
belve… sì, belve, poiché vedono passare
i giorni, i mesi e anche gli anni senza
che dia il menomo indizio di finirsi;
ce ne sono di quelli che perdono persino
la fede nel Signore…”


Dal diario di Caterina Pezzé Batesta di Moena.
Il brano è scritto all’età di 15 anni quando giunse la notizia della morte del fratello in battaglia.


9 novembre 1918:
“Siamo divenuti Italiani !!!”


Caterina Pezzé Batesta,
Piccolo diario di Caterina 1912-1918 dalla Pace
alla Grande Guerra, Ghedina & Tassotti ed., 1995